Trascorro parecchio tempo con mia figlia. 

Non voglio fare i conti in tasca a nessuno dei miei amici e colleghi padri, ma mi sa che vinco — o perdo, a seconda dei punti di vista. Cioè credo di trascorrere più tempo io con mia figlia rispetto a quanto non facciano loro. Conosco chi, di fatto, torna a fare il padre il venerdì sera e smette la domenica, più o meno alla stessa ora. Nel mezzo un culo quadro in un cubicolo d’ufficio oppure, se viaggiano, in un abitacolo di automobile; e treni e aerei e fiere e riunioni a Singapore.
Non è mica una storia di buoni e cattivi, questa. Parliamo di logistica famigliare, ecco. Di opportunità.
Nonché, ed è questo il punto focale, di desiderio. 

Non so chi stia meglio, giuro.
Ogni tanto, lo ammetto, la parte peggiore di me pensa: beati loro. Non sta bene, è vero, ma il mio mestiere è lo scrittore e uno scrittore non ha timori reverenziali verso la parte peggiore di sé. Perciò ogni tanto accolgo il pensiero e mi assolvo. Quando la bambina non vuole mangiare, non si addormenta, vuole leggere letteralmente per la dodicesima volta di seguito lo stesso stupido libro dell’Ape Maia o si sveglia alle quattro e quarantanove di notte e insisto io per alzarmi perché tra me e mia moglie è lei quella che ha orari d’ufficio canonici, lo penso.

Penso: beati quei padri che fanno i padri via FaceTime dalle loro confortevoli stanze d’hotel. Sono liberi, sono emancipati, guadagnano molti più soldi di me e, soprattutto, possono sentirsi normali agli occhi della società.

Il mammo

Ci mancherebbe: non sono l’unico.
Ne esistono tanti come me, gli alieni con tre braccia, decine di occhi, le squame, e quasi nessuno è un padre single o condannato all’esilio da un avvocato divorzista. Anzi, ora che ci penso, almeno per la mia esperienza, nessuno lo è.

Tutti, come me, sono padri felicemente sposati, parte più o meno sana e gioiosa di una famiglia che funziona e in cui, tuttavia, è la moglie, quindi la madre, a rivestire un ruolo dominante a livello professionale ed economico. Ce ne sono, esistono, esistiamo, non c’è niente di male.

È questo mondo fossile a funzionare in modo strano, androcentrico, nonché reazionario, e se l’evolversi del linguaggio procede parallelamente col manifestarsi nella società di nuove forme d’espressione e col rivestire ruoli che prima erano ascrivibili a uno solo dei due generi — lo sdoganamento del termine sindaca, per esempio, spauracchio lessicale dell’ultimo quinquennio politico italiano e ormai per fortuna entrato abbastanza in vigore da suonare “normale” —, un padre che sottenda a numerose altre funzioni, nell’ambito del nucleo famigliare, e non soltanto a quelle che portino a casa lo stipendio più alto, continua a essere definito… mammo.

Un termine non abbastanza triviale, evidentemente, né  mistificatorio o sessista, tantomeno obsoleto a sufficienza se è vero che ancora riesce a trovare spazio addirittura nel dizionario italiano della Treccani: 

s. m. [masch. scherz. di mamma], fam., scherz. – Uomo che, nella cura dei figli e nella gestione della casa, svolge le funzioni tradizionalmente proprie di una mamma.

Riscoprire il paterno

“Le funzioni tradizionalmente proprie di una mamma”.

compiti madre e padre

Nel diritto romano la figura del pater familias godeva della sovranità assoluta sugli altri membri della famiglia e rappresentava un’autorità onnipotente, ma parliamo di “diritto romano”, appunto, cioè dell’insieme di norme che costituirono l’ordinamento giuridico romano dalla fondazione di Roma (753 a.C.) fino alla fine dell’Impero di Giustiniano (565 d.C.): tantissimo tempo, ma anche tantissimo tempo fa.

Oggi può succedere non solo che il padre debba occuparsi quanto e più della madre delle “faccende domestiche”, ma che, oddio, lo voglia. Che lo desideri! L’annichilimento di un termine come “mammo” passa anche per la riabilitazione sociale del ruolo di padre: è giusto, è legittimo dare maggiore visibilità ai sogni, alle responsabilità maschili e quindi paterne. Perché se una donna può e deve sognare di essere un’ottima madre, ma anche una manager in carriera, una professionista che non molli di un centimetro il proprio lavoro, anche un uomo può e deve sognare di fare soprattutto il padre, se così preferisce.

Si tende a sottovalutarlo, ma è anche in questo modo che un “pater familias” contribuisce: sollevando il bilancio famigliare dalle spese per la babysitter, ad esempio, e consentendo alla partner di far girare il proprio curriculum, di accettare un trasferimento all’estero, di fare un Master, di investire sulla propria posizione sociale, sulle proprie ambizioni; e se siamo tutti d’accordo che questo tipo di madre non è un’empia arrivista incapace di assumersi le proprie responsabilità — tantomeno una gelida anaffettiva — l’altra metà della famiglia non è un invertebrato con la crestina in testa, bensì una persona che svolge il proprio ruolo di padre in combutta col partner, in collaborazione e alternanza, secondo necessità ma anche secondo precisi desideri.

Io preferisco essere un padre presente.

La riabilitazione del padre

Mi piace quando al ristorante capita che vada io con la bambina al bagno per cambiarla, e sorrido con grande sfoggio di orgoglio se sono costretto (succede ancora, a proposito di riabilitazione sociale) a espletare la pratica nella toilette destinata alle signore, poiché in quella per i signori di fasciatoi nemmeno l’ombra (qualche giorno fa ho lasciato nella pattumiera di un bagno pubblico un pannolino così carico di cacca e talmente puzzolente che mi è parso di aver portato a termine una potentissima rivendicazione diritti civili).

Mi piace conoscere un centinaio di ricette adatte a mia figlia e non considero un ribaltamento dei ruoli il fatto che quando sono io a dover passare due o tre giorni fuori, appresso alle presentazioni di un mio libro, puntualmente all’ora di cena mia moglie mi scriva o mi telefoni un po’ in impasse per chiedermi quale prodotto usare e come prepararlo o per quale caspita di motivo la frittata di prosciutto e patate a me riesca così compatta e a lei no.

Non mi piace essere l’oggetto della narrazione ironicamente ammirata delle amiche di mia moglie, per cui il fatto di avere un “marito così” è una manna dal cielo, “fortunata tu”. No, fortunata un accidenti: io sono anche e soprattutto, come tutti, un marito insopportabile, nervoso e, stante il lavoro che svolgo, sempre sull’orlo di una frustrazione ingestibile, e sospetto che la maggior parte delle volte mia moglie non si ritenga affatto fortunata e preferirebbe di gran lunga aver sposato un CEO di multinazionale che vivesse sei mesi all’anno su una piattaforma petrolifera a fronte di una busta paga dentro cui non ci fossero più spazi per gli zeri. 

La normalità

Cioè, nel disequilibrio cosmico che l’insieme formato da una coppia per forza di cose produce nell’ecosistema dei singoli, fino a quel momento perfetto, può esistere una bolla di galleggiamento interessante e piacevole data dal fatto che ognuno si sente normale così com’è.

Difficile da capire?
Impossibile da accettare?

Il mio diritto di fare il Padre senza per forza dover assomigliare a una donna (o perdere qualcosa in virilità: mi è capitato di leggere anche articoli di questo tenore) si affaccia sulla stessa piazza dove pasce il sacrosanto diritto di mia moglie di fare la Madre senza rinunciare alla propria indipendenza economica, tantomeno alle sue ambizioni. 

Si può fare.
È possibile.
Non c’è niente di male.
È normale.
(E montate quei cazzo di fasciatoi anche nei bagni degli uomini, per carità.)

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