Sono rimasta incinta del mio primo figlio poche settimane dopo il mio trentunesimo compleanno, a ridosso del mio primo anniversario di matrimonio. Ho avuto il raro privilegio di ritrovarmi davanti a un test di gravidanza positivo il mese stesso in cui mio marito e io avevamo deciso che sì, il momento di allargare la famiglia era proprio arrivato.

Avevo una casa di proprietà, un lavoro flessibile, un matrimonio rodato. Un compagno con ritmi di lavoro abbastanza sostenibili, e la volontà di dare il suo contributo come genitore. I quattro futuri nonni non vedevano l’ora di coccolare il loro primo nipote, e una delle mie migliori amiche aveva dato alla luce il suo bellissimo primogenito appena qualche settima prima.

Ero incinta, ma non ero felice

Le condizioni in cui mi trovavo, in poche parole, erano perfette. La mia maternità arrivava nel momento ideale, ero in ottima salute e la gravidanza è andata avanti senza il minimo intoppo, senza troppi chili, senza nausee o disturbi degni di nota. C’era di che essere grata con la vita, appagata e felice. Eppure, ho passato nove mesi a piangere.

A sentirmi sopraffatta, a chiedermi cosa ne sarebbe stato della mia vita, a sentirmi disperatamente sola e inadeguata. Avevo deciso io di diventare madre, e lo avevo fatto in piena consapevolezza. Eppure, la prospettiva concreta di avere un bambino mi sembrava improvvisamente spaventosa.

Avevo una paura terribile

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Avevo paura, una paura terribile. Di non essere all’altezza, di non riuscire a rendere felice mio figlio. Avevo paura di non poter più lavorare, io che ero comunque priva delle tutele di un contratto a tempo indeterminato. Avevo paura di annullarmi come individuo, di non riuscire più a coltivare i miei interessi, a frequentare i miei amici, a vivere la mia vita di coppia. Di non riuscire più a viaggiare.

Avevo paura di finire schiava delle abitudini e degli obblighi sociali, condizionata dalle aspettative dei nonni e dalle loro “pretese” sul bambino che portavo in grembo. Avevo paura che il mio corpo sarebbe cambiato in modo drammatico e irrecuperabile, che avrei passato la vita a guardarmi allo specchio senza riconoscermi.

Avevo paura di partorire, di allattare, di non riuscire a resistere alle notti senza sonno. Soprattutto, convivevo costantemente con la paura disperata e incontenibile che mio figlio non mi avrebbe amato. Che mi avrebbe preferito gli altri familiari, che presto o tardi si sarebbe accorto della mia incapacità di essere una buona madre. E che per questa ragione mi avrebbe negato il suo amore.

Non lo sapevo, ma ero depressa

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Non so se fosse una vera e propria forma di depressione, all’epoca ignoravo che oltre a quella post partum, esiste appunto anche la depressione gravidica, con basi psicologiche e ormonali. So solo che facevo molta fatica a manifestare agli altri la mia infelicità, a rispondere con la verità ai tanti che mi chiedevano se fossi “al settimo cielo”.

Ci provavo, perlomeno con le persone più vicine a me. Ma spesso ricevevo in risposta commenti frettolosi o sbalorditi, o ammonimenti che non facevano altro che peggiorare la situazione, aggiungendo al mio malessere un terribile senso di colpa e di ingratitudine.

Come se fosse incomprensibile quel mio atteggiamento così ambivalente e problematico dinanzi al “miracolo della vita”. Come se fosse imperdonabile. Nessuno mi hai mai consigliato di confrontarmi col ginecologo, nessuno si è chiesto se fosse necessario per me un supporto psicologico di qualche tipo, e io non sono stata abbastanza consapevole da pensarci da sola. Semplicemente, i pochi con cui osassi confidarmi mi esortavano a non preoccuparmi, essere positiva, ringraziare per il dono di quella maternità così semplice e benedetta. Come se io fossi in grado di farlo. Come se fossi in grado di scegliere.

Quelle ferite rimangono

Tra pochi mesi, il mio primogenito festeggerà il suo sesto compleanno, e nel frattempo, è diventato il fratello maggiore di una bambina. Ma io porto ancora i segni di quella gravidanza tormentata, ferite ancora dolorose nonostante un successivo percorso di psicoterapia e una seconda gestazione vissuta con tutt’altro approccio (e dichiarata al prossimo solo dopo la ventesima settimana).

Quei nove mesi hanno condizionato pesantemente, per quanto non soltanto in negativo, la mia esperienza da madre, i miei primi passi in questo viaggio complesso e totalizzante. E a volte mi dico che hanno in qualche modo segnato anche l’indole di mio figlio, costretto a crescere nella pancia di una mamma che, pur amandolo fin da subito con tutto il suo cuore, era oppressa dall’angoscia, dalla paura, dalla solitudine.

Incinta e infelice: non dobbiamo vergognarcene

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La depressione in gravidanza – o anche più semplicemente la tristezza – è un problema serio, e più diffuso di quanto lasci intendere la retorica della maternità ancora così legata all’immagine della gestante “radiosa” e bellissima. La dolce attesa, per quanto voluta e pensata, per quanto fisiologica e tranquilla, si rivela spesso tutt’altro che dolce, e affrontarla in solitudine può solo peggiorare le cose.

Non c’è vergogna, o almeno non dovrebbe essercene, nel riconoscersi sgomente, o addolorate, anche mentre si sta aspettando un figlio. Proprio perché si sta aspettando un figlio. Non c’è disamore, non c’è inadeguatezza nel sentirsi smarrite e sopraffatte. E non dovrebbe esserci giudizio nel cuore di chi ascolta, mai e poi mai.

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