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Nelle carceri italiane ci sono 23 madri detenute, assieme ai loro figli: 26 bambini che vivono dietro le sbarre. Ecco perché.
Un caso particolare è quello delle madri detenute che, anche se sono in numero molto limitato, hanno bisogno di normative ad hoc per tutelare soprattutto i loro figli, piccoli o piccolissimi, che in alcuni (ma già troppi) casi sono reclusi dietro le sbarre insieme a loro.
Alla fine di gennaio le madri nei penitenziari italiani erano 15, con 17 figli al seguito, riportava un rapporto dell’associazione Antigone. A fine febbraio erano già 21, con 24 piccoli. A fine marzo, secondo i dati del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria citati da Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori il numero delle madri detenute era salito a 23. I piccoli in cella erano 26.
Le madri straniere, secondo la rilevazione di fine febbraio, erano 14: il doppio delle italiane. Anche la maggior parte dei bambini erano stranieri: 15, a fronte dei 9 delle italiane.
Anche la distribuzione all’interno dei penitenziari è ineguale: l’Icam (Istituto a Custodia Attenuata per Madri) di Avellino ne accoglie la maggior parte (9 mamme e 11 bambini). Segue San Vittore (Milano), dove sono recluse 9 mamme e 9 bambini, la Puglia (due madri e 3 bimbi), il Lazio (due mamme e due bambini) e Piemonte, Umbria e Veneto, che accolgono ciascuna una madre con figlio al seguito.
A livello nazionale, le madri in carcere sono circa 1.400 e sono quasi 4mila i figli, secondo il rapporto dell’associazione Antigone sulle donne in carcere in Italia.
I bambini che trascorrono lunghi periodi in carcere, ha spiegato Giovanna Longo, presidente dell’associazione A Roma insieme a Valigia Blu
presentano varie difficoltà. Fanno fatica a parlare e hanno un vocabolario ridotto: spesso usano parole come ‘apri’, ‘chiudi’, ‘guardia’. E poi non riescono a sviluppare a pieno le proprie capacità motorie, visto che trascorrono molto tempo chiusi in una cella, senza la possibilità di scoprire il mondo esplorando lo spazio.
Non solo: questi bambini sviluppano un attaccamento estremo alla madre (e una conseguente ansia da separazione molto forte) oltre a disagi di tipo fisico e difficoltà di apprendimento.
L’art. 275, comma 4, c.p.p. stabilisce che
non può essere disposta la custodia cautelare in carcere, salvo che sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, quando imputati siano donna incinta o madre di prole di età inferiore a tre anni con lei convivente, ovvero padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.
Una donna incinta o bambini molto piccoli, quindi, non dovrebbero varcare le porte del carcere. Eppure, sappiamo che non è così: non solo 26 bambini sono detenuti, ma nonostante le promesse di “mai più bambini in carcere” di diversi ministri della Giustizia (Orlando prima, Cartabia poi), dentro gli istituiti penitenziari entrano anche neonati e, in alcuni casi, donne incinte.
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Un’ordinanza del comune di Milano, entrata in vigore il 30 maggio, prevedeva un “passaggio” – solitamente della durata massima di 24 ore – all’interno delle strutture carcerarie. Dove, però, mancano servizi ginecologici e medici, con rischi per la mamma e il feto: una ragazza ha abortito durante la detenzione a San Vittore già dopo le prime ore dall’entrata in vigore dell’ordinanza.
A distanza di un anno è la maggioranza, sull’onda del caso “borseggiatrici”, a spingere perché anche le donne incinte non siano esentate dal carcere, promettendo di riformare l’articolo 146 del Codice Penale che prevede il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena nel caso di donne incinte o con figli minori di un anno.
Secondo la legge sono previste tutele particolari nel caso di madri e donne incinte: nel 1975 la legge 354 regolamentava la questione delle madri detenute, permettendo di tenere i figli fino ai tre anni con sé. Ci sono voluti più di dieci anni perché, nel 1986, la legge 663 consentisse alle madri con pene fino a due anni la cosiddetta “detenzione domiciliare ordinaria”, che nel 1998 è stata estesa da due a quattro anni, portando a dieci il limite d’età del figlio purché fosse convivente.
L’8 marzo 2001, infatti, sono entrate in vigore le cosiddette “Misure alternative alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori”, introducendo la cosiddetta “detenzione domiciliare speciale” anche per le detenute madri che avessero commesso reati gravi, permettendo di scontare la pena ai domiciliari per stare vicino ai figli più piccoli dei 10 anni senza dover tenere i piccoli in carcere. Una legge che, viste le possibilità di recidiva e i numerosi precedenti penali di molte di queste donne, è rimasta spesso lettera morta.
Dieci anni dopo, un provvedimento del 20 maggio 2011 istituì le “case famiglia protette” – gestite dai servizi sociali e dagli enti locali – e gli Icam, (Istituti a Custodia Attenuata per Madri, come quello di Avellino), afferenti all’amministrazione penitenziaria: “carceri colorate, senza sbarre, né armi, né uniformi, nelle quali i figli delle detenute possono rimanere fino ai sei anni, non più i tre previsti dalla precedente normativa”, come spiega il report dell’Associazione Antigone.
Nel maggio 2022, invece, era stata approvata la cosiddetta “Legge Siani”, che prevedeva che le madri di piccoli fino a 10 anni potessero scontare la pena agli arresti domiciliari. Approvata alla Camera, la legge si è arenata al Senato in un nulla di fatto.
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Sulla scia della fallita legge Siani, nella nuova legislatura è stata presentata la proposta di legge Serracchiani per la “tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori”. Composta di 4 articoli, prevedeva il potenziamento delle case-famiglia, attraverso il finanziamento statale (e non più da parte del terzo settore) di nuove strutture. L’obiettivo, ha spiegato la prima firmataria, la deputata del Pd Debora Serracchiani,
non era certo quello di un’amnistia per tutte, ma far sì che le mamme e i minori potessero vivere, nel momento più delicato per i bambini, non in un carcere ma in una casa protetta, […] con tutte le attenzioni del caso secondo quell’articolo 27 della Costituzione che ci invita alla rieducazione.
La legge, che prevedeva l’eliminazione dei nidi nelle sezioni femminili ma lasciava aperta la possibilità della reclusione negli Icam in caso di “esigenze cautelari di particolare rilevanza”, però, è finita, di nuovo, in un nulla di fatto.
L’8 marzo, infatti, il testo è stato bloccato in Commissione Giustizia da una serie di emendamenti proposti dalla maggioranza di Fratelli d’Italia e Lega, che rischiavano di far approvare una legge peggiorativa rispetto a quella attuale: come abbiamo visto, l’intenzione era quella di far sì che anche le donne incinte potessero essere detenute – in carcere o negli Icam – in caso di recidiva. Il 23 marzo, quindi, la legge è stata ritirata dagli stessi proponenti. Intanto, 26 bambini rimangono in carcere.
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