Qualunque neogenitore potrà confermarlo: far combaciare allattamento e rientro a lavoro è molto spesso un’impresa titanica. Anche se le linee guida dell’OMS raccomandano l’allattamento al seno esclusivo fino ai sei mesi – e poi in associazione all’alimentazione complementare fino ai 2 anni – nella pratica trovare un equilibrio tra impegni, tiralatte e poppate è molto difficile.

Talvolta, poi, è la natura stessa del lavoro a complicare le cose, perché può essere potenzialmente dannoso per la salute della mamma o per il suo latte: si parla in questi casi di allattamento a rischio, un fattore che deve essere valutato per ottenere le tutele previste.

Allattamento a rischio: cosa significa?

Il decreto legislativo n.151 del 26 marzo 2001 regola la sicurezza e i rischi di una donna durante la gravidanza e l’allattamento, stabilendo delle norme a tutela della salute della madre e del bambino.

Con il termine “allattamento a rischio” ci si riferisce a quei casi in cui l’esposizione a determinati fattori (agenti fisici, biologici o chimici) o il contatto con molte persone (che può diventare un fattore di contagio) può compromettere la salute della neomamma e la qualità del latte. In questi casi, la madre può essere assegnata a una mansione priva di rischio o, se questo non è possibile, deve astenersi dal lavoro per non pregiudicare l’allattamento.

Il “Testo Unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell’art. 15 della legge 8 marzo 2000” stabilisce infatti che

Il datore di lavoro valuta i rischi per la sicurezza e la salute delle lavoratrici, in particolare i rischi di esposizione ad agenti fisici, chimici o biologici, processi o condizioni di lavoro di cui all’allegato C, nel rispetto delle linee direttrici elaborate dalla Commissione dell’Unione europea, individuando le misure di prevenzione e protezione da adottare (art. 11 comma 1)

Qualora i risultati della valutazione di cui all’articolo 11, comma 1, rivelino un rischio per la sicurezza e la salute delle lavoratrici, il datore di lavoro adotta le misure necessarie affinché l’esposizione al rischio delle lavoratrici sia evitata, modificandone temporaneamente le condizioni o l’orario di lavoro. (art. 12 comma 1)

Ove la modifica delle condizioni o dell’orario di lavoro non sia possibile per motivi organizzativi o produttivi, il datore di lavoro applica quanto stabilito dall’articolo 7, commi 3, 4 e 5, dandone contestuale informazione scritta al servizio ispettivo del Ministero del lavoro competente per territorio, che può disporre l’interdizione dal lavoro per tutto il periodo (art. 12 comma 2)

Il datore di lavoro, quindi, in collaborazione con la lavoratrice e i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza deve valutare se le mansioni lavorative della neomamma possono essere dannose per l’allattamento e, in caso affermativo, assegnarle altri compiti o, se non è possibile, provvedere ad esentarla dal lavoro.

Quali sono i fattori di rischio?

Non tutti i lavori presentano lo stesso grado di rischio, che deve essere valutato per ogni caso specifico. In generale, ci possiamo individuare diverse categorie di fattori di rischio per l’allattamento:

  • Agenti fisici: rientrano in questa categoria l’esposizione a radiazioni ionizzanti (1 millisievert all’anno), a rumore industriale maggiore a 90dBA o a sollecitazioni termiche (troppo caldo o troppo freddo).
  • Agenti biologici: è il caso di chi lavora in reparti di malattie infettive, mentali o nervose o nel caso si occupi dell’allevamento e della cura di bestiame.
  • Agenti chimici: sono a rischio le lavoratrici esposte a vernici e solventi, fumi, gas, polveri; mercurio e derivati; piombo e derivati; pesticidi; sostanze nocive, tossiche, corrosive, esplosive o facilmente infiammabili.
  • Altri rischi: oltre alle categorie sopra citate, sono considerati a rischio tutti i lavori che prevedono uno sforzo considerevole, posture prolungate, lavoro su scale o impalcature: queste lavoratrici vengono tutelate per 3 mesi dopo il parto. In caso di lavori faticosi, pericolosi ed insalubri si possono richiedere 7 mesi dopo il parto di tutela.

I lavori in cui si riscontrano la maggior parte dei casi di allattamento a rischio sono la ristorazione, il commercio alimentare e l’agricoltura: in questi casi, è frequente lavorare in microclima (ad esempio cucine troppo calde o celle frigorifere) o assumere posture obbligate, effettuare mansioni troppo faticose e contatto con agenti chimici;

Lo stesso vale per il settore industriale, in cui si aggiunge il rischio di contatto con agenti biologici, il settore alberghiero e domestico, estetiste e parrucchiere (postura obbligata, utilizzo di prodotti chimici e biologici); sanità (fatica fisica e stress, posture incongrue, contatto con radiazioni, ecc.).

La scuola rappresenta un caso particolare, perché ci cui ci sono più figure che presentano diversi livelli di fattori di rischio: a essere maggiormente a rischio sono le docenti e le insegnanti di sostegno, che sono esposte a rischi biologici (eventuali malattie infettive quali varicella e rosolia trasmesse dagli alunni), oltre alla possibilità di lavorare in un microclima, posizioni posturali scorrette e un alto carico di stress. Le insegnanti di sostegno, inoltre, devono effettuare sforzi fisici notevoli, così come le collaboratrici scolastiche, che sono esposte anche al pericolo di colpi e urti e a eventuali agenti biologici (come nei casi precedenti) oltre che al contatto con agenti chimici (prodotti per le pulizie).

Cosa comporta l’astensione per allattamento a rischio?

Nei casi in cui il datore di lavoro abbia valutato l’esistenza di fattori che potrebbero rappresentare un rischio per l’allattamento, la neomamma verrà assegnata a una nuova mansione per un periodo variabile dai 3 mesi ai 12 anni di vita del bambino a seconda del tipo di lavoro e della composizione del nucleo familiare.

Non tutti i settori, né i lavori, però, consentono di svolgere una mansione diversa: in questi casi, verrà quindi disposta l’astensione obbligatoria dal lavoro, anche in questo caso per un periodo variabile a seconda del caso specifico. La retribuzione, trattandosi di un’astensione obbligatoria, è del 100% e viene corrisposta direttamente dal datore di lavoro, che riceve poi il rimborso dall’INPS.

Nel caso degli agenti fisici, ad esempio, la tutela prevista per l’allattamento a rischio è di sette mesi dopo il parto così come l’astensione è pari a sette mesi nell’ipotesi in cui il fattore di rischio sia rappresentato dagli agenti biologici e dagli agenti chimici. Nel caso delle lavoratrici sottoposte a vibrazioni che coinvolgono gli arti superiori o tutto il corpo (come avviene sulle navi, sui treni e altri mezzi di trasporto), invece, le tutele dell’allattamento a rischio coprono i primi tre mesi dopo il parto.

Un caso particolare è quello del lavoro notturno (dalle 24 alle 6): le donne che allattano possono essere esentate fino a un anno dopo il parto, fino a 3 anni su richiesta e fino a 12 anni in caso di genitore unico.

Allattamento a rischio: come fare domanda?

Dopo il parto, la neomamma ha 30 giorni per consegnare al datore di lavoro il certificato di nascita: da questo momento spettano tre mesi di congedo di maternità (quattro nel caso la lavoratrice avesse lavorato fino all’ottavo mese di gravidanza).

Il datore di lavoro dovrà valutare se ci sono rischi per l’allattamento e se, quindi, la mansione a cui la neomamma è normalmente assegnata presenta uno dei fattori di rischio che abbiamo elencato. In caso non fosse così, dovrà dunque valutare se è possibile assegnarla a una mansione diversa o se è necessario richiedere l’astensione obbligatoria.

Nel primo caso, si deve presentare la domanda alla Direzione Provinciale del Lavoro attraverso i moduli reperibili sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, nel secondo caso è necessario presentare una comunicazione scritta alla Direzione Provinciale del Lavoro che provvederà all’interdizione al lavoro.

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