
Le aneuploidie sono delle alterazioni del numero (in eccesso o in difetto) dei cromosomi. Approfondiamo il discorso conoscendole più da vicino.
I bambini affetti da sindrome di Sanfilippo raramente raggiungono la vita adulta; scopriamo quali sono le cause, i sintomi e le attuali terapie esistenti per la gestione di questa grave (e rara) malattia genetica.
È una condizione genetica gravissima che causa danni cerebrali importanti e tali da determinare demenza infantile. Nella maggior parte dei casi i soggetti affetti dalla sindrome di Sanfilippo non raggiungono mai l’età adulta anche per l’assenza di trattamenti efficaci.
Scopriamo meglio di cosa si tratta, perché si sviluppa e come si manifesta.
La Società Italiana di Scienze Mediche (SISMED) definisce la sindrome di Sanfilippo come un disturbo genetico che colpisce il cervello e il midollo spinale provocando il deterioramento della funzione neurologica.
Si tratta, come evidenzia questo studio, di un gruppo di malattie neurodegenerative da accumulo lisosomiale rare, complesse e progressive. Cosa significa? Il Boston Children’s Hospital spiega come nelle malattie da accumulo lisosomiale (LSD) le variazioni genetiche interrompono la normale attività degli enzimi responsabili della metabolizzazione dei grassi e degli zuccheri all’interno degli organelli cellulari chiamati lisosomi. I soggetti affetti dalla sindrome di Sanfilippo non hanno uno di questi enzimi o non lo hanno in quantità sufficienti e le cellule non funzionano correttamente.
Le aneuploidie sono delle alterazioni del numero (in eccesso o in difetto) dei cromosomi. Approfondiamo il discorso conoscendole più da vicino.
Si conoscono quattro differenti sottotipi della Mucopolisaccaridosi di tipo 3, dovuti a mutazioni di 4 diversi geni codificanti enzimi responsabili della scomposizione dell’eparan solfato.
La differenza tra le varie tipologie di sindrome di Sanfilippo determina anche la gravità della progressione del deterioramento mentale.
La causa di questa condizione, quindi, è genetica e si ha una variazione tale per cui l’assenza degli enzimi non permette alle cellule di metabolizzare il solfato di eparano che va ad accumularsi nei tessuti del corpo.
La sindrome di Sanfilippo si eredita secondo un modello autosomico recessivo; per svilupparla, quindi, il bambino affetto ha ricevuto da entrambi i genitori una copia alterata del gene.
Generalmente alla nascita, come evidenziato dal portale MedilnePlus, i bambini non mostrano caratteristiche riconducibili alla sindrome di Sanfilippo e i primi sintomi iniziano a manifestarsi durante la prima infanzia. I segni iniziali riguardano le infezioni dell’orecchio e della gola ricorrenti e la presenza di problemi intestinali. Si hanno quindi problemi comportamentali come e difficoltà nel discorso, disturbi del sonno, regressione evolutiva, disabilità intellettuale che tendono a peggiorare con il passare del tempo tanto da rendere i bambini irrequieti, iperattivi, ansiosi, aggressivi e impulsivi.
In alcuni casi si notano caratteristiche del disturbo dello spettro autistico e i bambini con la sindrome di Sanfilippo hanno la tendenza a masticare oggetti e a mettere oggetti in bocca. Ci sono anche delle caratteristiche fisiche ricorrenti come la testa allargata (macrocefalia), la lingua allargata (macroglossia), lo sviluppo di ernia ombelicale o ernia inguinale e la presenza di un fegato ingrossato.
Nelle fasi avanzate della malattia si hanno convulsioni, deficit visivo, perdita dell’udito, artrite, infezioni respiratorie ricorrenti, diarrea, disturbi del movimento e perdita della mobilità. In alcuni casi si registrano anche anomalie cardiache (cardiomiopatie, aritmie e problemi alle valvole cardiache).
Le quattro tipologie di sindrome di Sanfilippo hanno sostanzialmente i medesimi sintomi e segni, ma nella Mucopolisaccaridosi III A questi tendono a comparire più precocemente e a progredire più rapidamente.
Nei pazienti con le caratteristiche cliniche riconducibili alla sindrome di Sanfilippo per la conferma diagnostica si richiedono la presenza di almeno due marcatori genetici o biochimici della malattia (come l’accumulo di GAG o la diminuzione dell’attività degli enzimi lisosomiali). Per la diagnosi ci si avvale dell’analisi dei glicosaminoglicani (GAG) tramite campione urinario e l’analisi degli enzimi (il test di riferimento per questa condizione). In caso di sospetta diagnosi si può ricorrere anche ai test genetici molecolari.
Per la sindrome di Sanfilippo si può ricorrere in epoca prenatale anche all’amniocentesi o alla villocentesi, in un contesto di familiarità nota, per i test biochimici e molecolari dei tessuti fetali.
Lo screening neonatale esteso consentirebbe, come riportato dall’Osservatorio Screening Neonatale, di individuare precocemente la mucopolisaccaridosi di tipo I, ma questa non rientra tra le patologie metaboliche comprese nel pannello nazionale (in Italia è presente dal 2015 solamente nella Regione Veneto).
Come riferito dall’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, infatti, in alcune regioni italiane è disponibile il test enzimatico su un campione di sangue periferico o su gocce di sangue essiccate su una speciale carta che consente di verificare i livelli di attività dell’alfa-L-iduronidasi che nei pazienti con mucopolisaccaridosi sono generalmente prossimi allo 0.
Sebbene negli ultimi anni i tassi di sopravvivenza e la qualità della vita siano migliorati rispetto al passato, resta il dramma di vedere peggiorare progressivamente i bambini affetti da questa patologia senza alcuna possibilità di guarigione o sopravvivenza. L’aspettativa di vita è sostanzialmente legata alla gravità dei sintomi e all’insorgenza di complicazioni cardiovascolari, neurologiche e respiratorie.
Di per sé attualmente non esistono cure e terapie per la sindrome di Sanfilippo ed è quindi una condizione che va gestita secondo gli sviluppi che assume con il passare del tempo. Si richiede quindi il ricorso a un team di specialisti per sviluppare un piano terapeutico adeguato. Il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) riporta come si possano però immaginare delle nuove strategie terapeutiche grazie a recenti ricerche condotte in materia che, nei prossimi anni, potrebbero consentire un trattamento sintomatico più efficace rispetto a quanto oggi possibile.
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