I comportamenti sono da sempre oggetto della riflessione umana con una particolare attenzione su quelli più sconvolgenti e indicibili. Uno dei più complessi fenomeni ascrivibili a questo campo è quello dell’infanticidio e in modo particolare l’uccisione di un neonato da parte di uno dei genitori, soprattutto se essa è la madre. Questo perché, come ben illustrato in uno studio pubblicato sulla Rivista di Psichiatria, la madre che uccide il figlio provoca nell’immaginario collettivo orrore e allarme sociale. Alla base di queste reazioni c’è il ritrovarsi

su una corrente opposta al comune concetto culturale di madre e di donna, che racchiude in sé una sorta di sacralità divina, rappresentante una figura geneticamente e culturalmente predisposta a donare, accudire e proteggere la vita del proprio bambino.

Tra le diverse possibili cause alla base di questo tragico esito c’è anche la cosiddetta sindrome di Medea, la condizione per cui una madre uccide il figlio per vendicarsi del partner.

Sindrome di Medea: che cos’è e come si manifesta

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Fonte: iStock

La sindrome di Medea prende spunto dalla tragedia di Euripide nella quale la principessa Medea uccide i propri figli come vendetta nei confronti del marito che l’aveva tradita e abbandonata. Nell’accezione moderna il fenomeno ha assunto un significato per alcuni aspetti anche più ampio ma sempre incentrato sulla vendetta (non solo fisica ma anche emotiva e psicologica) e sulla volontà di privare il padre del rapporto con i figli.

Può quindi avere manifestazioni diverse e non strettamente legate alla soppressione fisica del neonato (o del feto come suggerito in questo studio tanto da poter spingere la gestante ad abortire volontariamente), per quanto questa resta la forma più sconvolgente e drammatica. Questo studio, infatti, riferisce come la sindrome di Medea sia un comportamento di abuso emotivo in cui un genitore impedisce all’altro di avere accesso ai figli. Si tratta di un comportamento basato sull’uso dei bambini per infliggere all’altro genitore una forma di vendetta legata a una sofferenza amorosa.

Le radici e le cause psicologiche

Elencare le possibili cause di una scelta così terribile può apparire riduttivo in quanto non tutte le madri che sperimentano tali condizioni arrivano a commettere un atto così estremo. Per questo parliamo di radici psicologiche che possono, in maniera non certo facilmente spiegabile e comprensibile, portare a un esito di questo tipo. Vengono quindi considerate possibili cause della sindrome di Medea la fragilità psichica, il malessere psicologico (specialmente quello non accettato e affrontato), la disabilità intellettiva, i disturbi psicofisici, il vivere in un contesto di vita culturale ed economico precario, il senso di solitudine, la depressione post-parto, la psicosi e il non sperimentare un legame affettivo con il proprio figlio.

A questo proposito è utile aggiungere quanto riportato da uno studio della Rivista Italiana di Ostetricia e Ginecologia per cui l’amore per un figlio non è mai disgiunto dall’odio nei suoi confronti. Questo perché la depressione post-partum è il segno di ogni maternità in quanto “il sacrificio per l’altro. Sacrificare il proprio tempo, il proprio spazio, il proprio sonno, il proprio corpo, la propria carriera e i propri affetti e relazioni”. Tutte le madri sviluppano la sindrome di Medea? Ovviamente no; tale indicazione è per sottolineare come la stessa gravidanza e maternità – delle quali non si può non parlare se non in toni entusiastici – rappresentano una sfida anche da questo punto di vista.

I rischi e le conseguenze

La conseguenza più estrema, per il bambino, è ovviamente la morte ma non è l’unica se si considera la sindrome di Medea in tutte le sue accezioni. Un interessante studio pubblicato su SciELO sui cosiddetti figli di Medea, ovvero quei bambini che manifestano la sindrome da alienazione parentale (l’insieme dei sintomi che egli manifesta come conseguenza al processo di separazione dei propri genitori), illustra una serie di conseguenze drammatiche.

Il bambino, infatti, può andare incontro a disturbi psicologici, bassa autostima, depressione, uso di droghe, disturbi della personalità, problemi relazionali, difficoltà a fidarsi degli altri e dipendenza eccessiva dalla madre che lo priva del rapporto con il padre. Inoltre i bambini possono denigrare il padre e rifiutarne la presenza andando a creare interazioni conflittuali tra loro e il genitore alienato, imitando ciò che hanno visto fare dall’altro genitore.

Sebbene troppo spesso ci si preoccupi solamente dell’impatto della sindrome di Medea sul bambino è indispensabile allargare la prospettiva e includendo anche la madre. Un soggetto che se giuridicamente colpevole (specialmente nel caso dell’infanticidio) è anch’egli vittima e non solo carnefice. Ed è importante lasciare ad altri il compito di stabilire le responsabilità e riflettere maggiormente su quali condizioni hanno spinto una persona a ucciderne un’altra o privarla del rapporto con l’altro genitore e, ancora, sul dramma che quella persona vive non solo prima ma anche dopo aver compiuto quegli atti.

Le madri coinvolte nella sindrome di Medea vanno incontro non solo ai problemi legali conseguenti le loro azioni, ma anche all’isolamento sociale e a sviluppare un profondo senso di colpa con conseguente ampliamento di un disagio psichico ed emotivo spesso preesistente.

Come prevenire e affrontare la sindrome di Medea

Alla luce di quanto abbiamo appena detto è quindi indispensabile porre maggiore attenzione su cosa è possibile fare per evitare che determinati comportamenti, più o meno estremi, si verifichino. Un primo aspetto su cui è importante porre l’attenzione è quello del disagio psicologico. Abbiamo visto che tra le radici della sindrome di Medea c’è il malessere psicologico e in modo particolare quello non accettato e affrontato. Ecco, è quindi importante lavorare per riconoscere i disagi emotivi per poterli affrontare.

Avere questi disturbi, problemi e disagi non è una colpa e al netto delle eventuali responsabilità personali l’obiettivo e l’interesse è (dovrebbe essere) quello del benessere delle persone. Eppure ancora oggi troppo spesso la salute mentale e tutto quello che questo significa viene sempre sottovalutata e derisa, trascurata e a volte anche ostacolata, creando un terreno fertile a possibili evoluzioni peggiori.

Va parallelamente garantito a ogni donna sin dalla gravidanza un supporto costante cui poter fare riferimento in caso di necessità. Con il parto, infatti, tutte le misure assistenziali previste (a volte carenti ma in qualche misura comunque esistenti) vengono meno rappresentando anche questa interruzione un contributo a quel senso di solitudine e abbandono che le madri spesso riferiscono.

Queste misure assistenziali hanno come scopo anche e soprattutto quello di agire quando è ancora possibile intervenire, riconoscendo i primi segnali di allarme e consentire alle persone coinvolte di ricevere l’aiuto e la cura di cui hanno bisogno.

Il ruolo della società nel supportare le madri

È impossibile non riconoscere alla società, anche alla nostra società moderna occidentale, un ruolo da protagonista nel favorire lo sviluppo di quei fattori di rischio che possono condurre alla sindrome di Medea. Se non c’è un rapporto di causa ed effetto e la responsabilità (almeno legale) è sempre personale, è altrettanto vero che le persone vivono in un contesto familiare, amicale, professionale e pubblico che le influenza e condiziona.

Per questo è indispensabile contribuire nel superare tutti quei pregiudizi, spesso nascosti sotto il velo dell’ironia e dell’innocenza, nei confronti della maternità, della femminilità e, come detto, sulla salute mentale. La nascita di un nuovo individuo non è mai un fatto esclusivamente privato e recuperare alcune forme di solidarietà e responsabilità (sia individuali che politiche) è indispensabile per poterci dire più progrediti così da poter vivere in un contesto non dove le madri non uccidono i figli, ma in una società in cui una madre che soffre a causa del partner possa essere supportata e non ignorata per poi essere condannata.

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