
Quanto tempo può passare da quando si desidera un figlio a quando quel figlio finalmente arriva? Tanto, tantissimo tempo.
A cosa serve un padre? Ammetto di averlo compreso a stento, durante i nove mesi della gravidanza, e ancor meno prima, nei tre anni circa che ci sono voluti perché quella gravidanza si innescasse grazie alla procedura che prende il nome di Fecondazione in Vitro.
Il padre non ha un corpo.
È pensiero, è testa, è una presenza recalcitrante, perfino più recalcitrante del feto che la madre, Corpo Assoluto, culla e cresce al suo interno, lei sì protagonista nel senso etimologico di questa vicenda, da “pròtos”, primo, e “agonistès”, attore drammatico, chi dunque recita la prima parte, e questi, converrete, non è certo il Padre, relegato in secondo piano, sullo sfondo, la stalla adiacente alla Chiesa.
A cosa serve un padre?
Ammetto di averlo compreso a stento, durante i nove mesi della gravidanza, e ancor meno prima, nei tre anni circa che ci sono voluti perché quella gravidanza si innescasse grazie alla procedura che prende il nome di Fecondazione in Vitro.
Un periodo lungo, come già detto, durante il quale il mio corpo retrocesse fino alle dimensioni di una nana bianca (1), e in cui entrambi, mia moglie e io, ancora non avevamo preso confidenza col Tutto che ci aspettava — erano le fasi delle visite mediche, dei controlli, delle interrogazioni —, pur avvertendone le avvisaglie in qualche luogo spugnoso e poco frequentato del nostro cervello, sotto forma di piccoli incubi notturni, brevi momenti di silenzio durante i pasti e qualche sguardo che sottintendeva cose.
La Fecondazione in Vitro è strutturata in varie fasi, esiste una letteratura intera sul Web che ne spiega procedure e meccanismi, quindi non mi dilungherò, ma ci tengo a fare capire l’incidenza del corpo (di madre, naturalmente) e la disfunzione cagionata dal fattore Tempo (che però riguarda entrambi).
Quanto tempo può passare da quando si desidera un figlio a quando quel figlio finalmente arriva? Tanto, tantissimo tempo.
In breve:
Fantascienza o amore estremo, quest’è anziché fare all’amore. (2)
Il padre non ha un corpo, ma la madre sì.
La madre ce l’ha.
Ancora prima della prima fase, quella della stimolazione ovarica, equiparabile più o meno al momento in cui si lascia l’auto nel parcheggio multipiano di un aeroporto, se questo fosse un viaggio, mia moglie si era già dovuta sottoporre a:
– esame del cariotipo
– screening della fibrosi cistica
– elettroforesi dell’emoglobina
– epatite C e markers epatite B
– ecografia pelvica
– pap-test
– tampone vaginale con ricerca di clamidia, micoplasma e trichomonas
– anti- corpi per citomegalovirus o herpes
– ecografia mammaria.
Quanto a me, niente.
Anzi, siamo onesti:
– 1 spermiogramma.
Perché naturalmente il corpo del padre è minuscolo e invisibile anche nei possibili difetti, anche quando si tratta di indagarlo. La maestosità di un cargo contro la contingenza di una piccola zattera tra le rapide.
Il mio momento peggiore, o di massimo rimpicciolimento, fu proprio, credo, in occasione di quell’unico esame, il mio spermiogramma, più precisamente quando andai a ritirare i risultati, il referto chiuso in una busta da lettera che, una volta fuori dal centro diagnostico, subito aprii senza nemmeno aspettare di aver girato l’angolo e il cui contenuto lessi avidamente, con l’intensità della scopata che non avrei mai potuto fare per concepire mia figlia, lessi e tra molti dati incomprensibili andai subito a cercare il senso, il cuore pulsante della montagna, e lo trovai e questo cuore diceva che ero fertile, che, insomma, il problema non ero io e lì il mio corpo retrocesse per sempre, si polverizzò definitivamente per quanto integro, il corpo del maschio, il corpo del padre, questo corpo inutile e meschino che nemmeno il piacere di prendersi tutta la responsabilità mi stava facendo, nemmeno quello, e quando telefonai a mia moglie per comunicarle con voce tombale una notizia che di fatto era buona, sentii tutto il peso di quel corpo, il suo, che prendeva definitivamente il posto del mio sopra a quell’altare a cui eravamo costretti a immolarci.
Me le ricordo tutte le visite a cui si sottopose il corpo di mia moglie, in quei luoghi, negli ospedali, mentre io, invisibili, sullo sfondo, attendevo; nelle sale d’attesa il fattore tempo e il fattore corpo si intersecano, due apparenti parallele che per un momento osano l’impossibile e si toccano, lo stesso osare di due mani che si tengono l’una nell’altra, mentre aspettano il proprio turno in un corridoio di fòrmica e vago sentore di alcol.
I controlli, le ecografie, la psicosi, gli spostamenti in auto verso questo o quell’altro centro specialistico come peregrinazioni lovecraftiane, una specie di globo venoso di terrore cosmico che orbitava sopra ogni conversazione; me le ricordo, mi ricordo il meteo, se pioveva, se c’era il sole, com’eravamo di umore, questi due corpi fragili e imperfetti, seduti in auto, l’uno accanto all’altra, a osservare fuori dai finestrini il mondo succedere, provando anche un certo fastidio, un po’ ottuso, un po’ comico, verso tutta la gente che incontravamo, tutta quella gente che ci stava facendo il dispetto di essere già nata, me le ricordo quasi tutte quelle andate e pure quei ritorni — nel mezzo un monitor con immagini stilizzate incomprensibili attraverso cui capire se potevamo procedere alla fase successiva —, mi ricordo il volume della cartellina medica sulle ginocchia di mia moglie che si ispessiva settimana dopo settimana, ricordo un certo fastidio imbarazzante e irraccontabile che provavamo, che provava soprattutto lei, il Corpo, davanti alla soave condizione di serenità di un’altra madre in maternità obbligatoria che si chinava proprio davanti a noi, per strada, a rimettere il ciuccio nella bocca del figlio nel passeggino, o al parto di una tizia famosa, o all’enormità straziante del suo passo che puntualmente accelerava — e che oggi rallenta — in prossimità di un reparto premaman di un negozio in un centro commerciale.
(1)
Una nana bianca è una stella di piccole dimensioni, con una bassissima luminosità e un colore tendente al bianco. Nonostante le ridotte dimensioni, la massa dell’astro è simile o lievemente superiore a quella del Sole. Si tratta quindi un oggetto molto compatto, dotato di un’elevatissima densità e gravità superficiale.
Non mi sto paragonando al Sole, non sto paragonando nessun Padre al Sole, ma comunque ammetto che questa è la descrizione più vicina al ruolo in cui sia mai capitato di incappare.
(2)
Ok, non si tromba, ma qualcosa bisogna pur fare, ne converrete, a livello, be’, di eiaculazione, per innescare questo concepimento che, con buona pace dei puristi, rimane naturalissimo, e io ovviamente lo feci, felice di riappropriarmi per un breve istante del mio corpo.
La prima cosa fu un kit, una bustina di carta, tipo quella in cui si mette il pane dal fornaio, e un barattolo di plastica sterile. La seconda fu la freddezza algebrica con cui ci indicarono delle porticine infilate una accanto all’altra che conducevano a stanzette asettiche dove fare ciò che dovevamo fare, la più importante, decisiva, categorica pippa delle nostre esistenze. La terza fu l’attesa che intercorse tra il momento in cui mi ritrovai in corridoio, fatto quel che dovevo fare, e quello in cui il campione del mio seme avrebbe incontrato l’ovulo e dai due ai tremila spermatozoi mobili sarebbero entrati in contatto con l’ovocita, con una percentuale di fecondazione (in vitro, appunto) pari più o meno al 75%: circa due ore (a parte il riposo che le aspiranti primipare dovevano osservare in apposite camerette di vago stampo kafkiano, c’era bisogno di una serie di procedure burocratiche prima di poter fisicamente consegnare i nostri barattolini: autocertificazione, riempimento di scartoffie, eccetera, tutto rigorosamente un padre alla volta, in ordine alfabetico e il mio cognome comincia per esse).
Perciò non mi restò altro da fare che uscire e portare con me il barattolo col suo contenuto, tornare al sole, andare al bar, e così feci. Mi sedetti, ordinai una spremuta d’arancia, un cappuccino e una brioche. Attesi. Su un tavolo adiacente c’era un quotidiano del giorno, lo presi, lo lessi, lo sfogliai, dalle notizie sembrava una mattinata qualsiasi.
Arrivò la mia ordinazione, il cameriere mi sorrise. Prima la spremuta, poi il piattino col cappuccino, infine la brioche. Consumai queste cose il più lentamente possibile. Ogni tanto controllavo il mio involucro di cartone, che avevo infilato già da un po’ nella tasca interna del piumino: non avevo ancora risolto l’imbarazzo che mi dava l’averlo addosso, il dovermelo portare in giro. Aspettai ancora prima di alzarmi, cercai di rimettere le briciole che avevo prodotto una a una nel piattino, controllai se c’era ancora una goccia di cappuccino, pensai a un altro caffè. Poi pagai, ringraziai, uscii.
Ancora non lo potevo sapere – a malapena osavo sperarlo – ma quella fu la prima colazione della mia vita con mia figlia.
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