Il parto è un evento che si articola su tre fasi: l’inizio del travaglio, il passaggio del feto e l’espulsione della placenta (secondamento). Tra le possibili complicanze che si possono verificare durante l’ultima fase del parto c’è anche quella della placenta ritenuta.

Si tratta di una condizione che, come riportato dall’International Journal of Women’s Health, interessa tra l’1% e il 3% dei parti ed è una causa comune di morbilità ostetrica. Può infatti avere conseguenze molto gravi per la sopravvivenza della partoriente e richiede un’attenzione particolare.

Placenta ritenuta: cosa significa?

Si dice ritenuta quella placenta che non viene espulsa spontaneamente in un periodo di tempo variabile (generalmente trenta minuti) dalla nascita del bambino. L’American Pregnancy Association classifica tre tipologie di placenta ritenuta: placenta aderente, placenta intrappolata e placenta accreta:

  • nella placenta aderente (la forma più comune) questa rimane attaccata alla parete dell’utero per l’assenza di contrazioni sufficienti per consentirne la completa espulsione;
  • nella placenta intrappolata, invece, la placenta si stacca correttamente ma non riesce a fuoriuscire per la chiusura della cervice;
  • nella placenta accreta la placenta è attaccata in profondità alle pareti dell’utero raggiungendone la muscolatura rendendo difficoltoso non solo il secondamento ma anche il parto stesso.

Le cause e i sintomi

Propriamente la ritenzione della placenta si verifica quando il miometrio retroplacentare non riesce a contrarsi e tale condizione si può verificare non solo dopo la nascita del bambino ma anche durante il travaglio, rendendolo disfunzionale.

I motivi per cui si può andare incontro a una placenta ritenuta sono diversi. Il portale WebMD indica l’assenza di contrazioni adeguate (la causa più comune), la chiusura della cervice, un parto pretermine, un precedente intervento chirurgico a carico dell’utero, il ricorso alla fecondazione in vitro e un uso prolungato di farmaci a base di ossitocina.

Sono considerati fattori di rischio una placenta ritenuta in una precedente gravidanza, una precedente interruzione volontaria di gravidanza, un aborto spontaneo, una grande multiparità (più di cinque parti precedenti) e la presenza di anomalie uterine congenite.

Avere contrazioni insufficienti per l’espulsione della placenta può essere dovuto a macrosomia fetale (bambini troppo grandi), un travaglio eccessivamente veloce o eccessivamente lungo, un parto gemellare e la presenza di fibromi.

La placenta ritenuta si manifesta con la mancata fuoriuscita di questo organo dopo la nascita del bambino. Il sintomo associato più comune è la perdita di sangue. A volte la placenta viene espulsa ma non completamente; in questi casi si può andare incontro a sanguinamento, coaguli di sangue, febbre, brividi, malessere e perdite vaginali maleodoranti.

Le conseguenze e i rischi

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Fonte: iStock

L’Istituto Superiore di Sanità inserisce la placenta ritenuta tra i fattori di rischio per l’emorragia post-partum, una condizione potenzialmente fatale per la partoriente.

Parallelamente la mancata espulsione della placenta può causare infezioni. In alcuni Paesi del mondo, come evidenziato in questo studio, ha un tasso di mortalità di quasi il 10%.

Il trattamento nei casi di placenta ritenuta

Una placenta ritenuta non trattata è considerata la seconda causa principale di emorragia post-partum. L’espulsione della placenta è quindi monitorata attentamente dopo la nascita del bambino e nel caso in cui non fuoriuscisse si valuta la rimozione manuale (che comporta comunque un rischio di infezione) e la somministrazione di farmaci che favoriscano le contrazioni uterine. Subito dopo il parto si suggerisce l’allattamento al seno, anche perché in questo modo si previene la ritenzione della placenta.

In alcuni casi, la donna viene invitata a cambiare posizione per aiutare l’utero nelle contrazioni necessarie per l’espulsione della placenta o si ricorre a un massaggio addominale sempre con l’obiettivo di favorire le contrazioni.

Nel caso in cui gli altri metodi si fossero rivelati insufficienti si ricorrere all’intervento chirurgico tramite il quale rimuovere completamente la placenta. È un intervento non privo di rischi sia per la possibilità di sviluppare infezioni e sanguinamenti (potenzialmente letali) ma anche perché può causare l’infiammazione del rivestimento uterino (endometrite).

La scelta del tipo di procedura da eseguire dipende da diversi fattori: dalla quantità di materiale placentare ritenuto, dai sintomi sperimentati dalla donna, dal grado di vascolarizzazione della placenta e, come per ogni scelta terapeutica, dal rapporto tra rischi e benefici di ogni trattamento.

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