La psicoterapeuta statunitense Jessica Zucker, che da anni lavora con le donne che hanno subito un aborto spontaneo, ha deciso di aprirsi riguardo la propria esperienza, scrivendo un libro per raccontare della perdita subita a sedici settimane di gravidanza.

In Rompere il silenzio, edito in Italia da Il Margine, infatti, Zucker, autrice della campagna #IHadAMiscarriage che è diventata una community mondiale, analizza i tabù che ancora oggi investono le donne che subiscono un’interruzione spontanea di gravidanza. A partire dalla colpevolizzazione, come sottolinea in un’intervista con Vanity Fair.

Rompere il silenzio. Come ho superato un aborto spontaneo

Rompere il silenzio. Come ho superato un aborto spontaneo

La psicoterapeuta Jessica Zucker aiuta le donne a superare lo stigma sociale per l'aborto spontaneo, parlando di quello da lei stessa subito nel 2012.
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“Credo che [la colpevolizzazione, ndr.] sia perché, in assenza di un contesto culturale adeguato, si ripiegano su se stesse. Le donne sono abituate da sempre a incolparsi per troppe cose, e l’aborto spontaneo è un’opportunità perfetta per lanciare dure affermazioni contro se stesse o per credere che in qualche modo avrebbero potuto fare qualcosa di diverso per ottenere un risultato diverso. Lottiamo con l’aborto spontaneo anche perché troppo spesso siamo circondati da immagini di pancioni che immaginiamo siano arrivati facilmente. Viviamo in una società che si basa sui lieti fini per andare avanti. Siamo cresciuti in un mondo che premia il successo, i riconoscimenti e la positività. Ci è stato insegnato che, se ci impegniamo abbastanza per ottenere qualcosa, ci riusciremo. La gravidanza, e tutto ciò che può accadere durante quei mesi, smentisce questa idea”.

La verità, spiega Zucker, è che “Non possiamo controllare i cromosomi, la genetica o cose a noi sconosciute che potrebbero accadere nel nostro corpo e che possono sconvolgere una gravidanza. Ma ci poniamo lo stesso domande come: ‘E se avessi fatto troppo esercizio fisico?’, ‘È stato quel sorso di vino?’, ‘Mi è successo perché ero ambivalente riguardo alla maternità?’. Oppure, al contrario, ‘Mi è successo perché lo desideravo troppo?'”.

Il filo conduttore è: ho fatto qualcosa di sbagliato. I miei pensieri e/o le mie azioni sono state la causa. Se solo avessi fatto qualcosa di diverso, avrei ottenuto un risultato diverso. Ma quando si tratta di gravidanza e di aborto spontaneo, la responsabilità non risiede in questo tipo di azioni. La ricerca ci informa che queste cose non provocano l’aborto spontaneo. Ma la mente vuole comprendere e credere: ora che so cosa ho fatto per causare questa perdita, la prossima volta farò qualcosa di diverso. È un pensiero magico. È comprensibile che ci aggrappiamo a questo modo di pensare quando soffriamo, ma è fallace e, alla fine, improduttivo.

A contribuire allo stigma, ovviamente, anche il silenzio culturale, “come se la società si bloccasse quando si tratta di parlare di cose fuori dall’ordinario. Di conseguenza, le persone sofferenti sono spesso liquidate con luoghi comuni goffi, parole zuccherose, o peggio, completo e totale silenzio. A quel punto, iniziano a mettere in discussione se stesse: è stata colpa mia? Non dovrei parlarne? Forse dovrei aver superato questo dolore ormai. Alienate, iniziano a incarnare e persino ad abbracciare lo stigma. Il modo più semplice per bloccare questo ciclo dannoso è parlare delle nostre verità, raccontare le nostre storie, resistere all’autocolpevolizzazione, guardando alla scienza e alla ricerca per comprendere le reali ragioni per cui si verifica l’aborto spontaneo”.

L’aborto spontaneo si manifesta piuttosto frequentemente nei primi 180 giorni di gravidanza; i dati rilevano che una donna su quattro (circa il 25%) ne subisca uno. Eppure, la società sembra voler “nascondere” un fenomeno che, di fatto, è tutt’altro che raro.

“Come società, tendiamo a evitare di parlare in modo franco di argomenti scomodi, e l’aborto spontaneo fa parte di questi. Quando non sanno cosa dire, le persone spesso si affidano a luoghi comuni, con le migliori intenzioni. Affermazioni come: ‘Almeno sai che puoi rimanere incinta’, ‘È successo per una ragione’, ‘Ne avrai un altro’, ‘Forse il tuo corpo sapeva che qualcosa non andava’ e altre dichiarazioni simili non solo sono inutili, ma possono fare sentire alienata una persona che ha appena sperimentato una perdita devastante”.

Cosa fare, allora, di fronte a una donna che ha appena avuto un aborto spontaneo?

Chiedi alla persona come sta. Tieni la sua mano. Ascoltala. Dì la verità. Dì che sei dispiaciuto. Dille che non è colpa sua, che non ha fallito. Aiutala a ricordare che non é sola. Molte persone trovano conforto nel connettersi con altre che hanno sperimentato perdite simili. Trovare una comunità e parlare con un terapeuta esperto in perdite in gravidanza e infertilità può essere utile. Sfortunatamente, gli amici e i familiari non sempre sono le persone giuste con cui parlare subito. Potrebbero non padroneggiare il linguaggio o gli strumenti necessari per affrontare la discussione in modo che risulti utile. Ed è per questo che è meglio trovare altre persone che abbiano avuto esperienze simili e cercare terapeuti che sappiano davvero come offrire sostegno.

Il suo libro, racconta, è ispirato all’esperienza vissuta in prima persona nel 2012: “È stata una sorpresa, visto che ero già stata madre e avevo avuto una gravidanza normale e sana con il mio primo figlio. Non ero preparata a questa eventualità. La perdita mi ha colto di sorpresa e mi ha spinto a riflettere profondamente non solo sulla mia esperienza, ma anche su come la nostra cultura tratti lìaborto spontaneo. Da psicologa, ho avuto un punto di vista privilegiato che mi ha permesso di combinare la mia conoscenza professionale con la mia esperienza personale. Mi sono resa conto che c’era un grande bisogno di più risorse e conversazioni aperte sull’argomento. Il mio libro è diventato un modo per condividere non solo la mia storia, ma anche per dare voce a tante altre storie che spesso rimangono inascoltate. Ho voluto creare un movimento di consapevolezza, un invito alla comunità a parlare apertamente, sostenere e comprendere meglio coloro che attraversano queste esperienze difficili. Il libro è diventato un mezzo per rompere il silenzio e combattere lo stigma e la vergogna che troppo spesso, ancora, circondano l’aborto spontaneo”.

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