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Uno studio medico-scientifico condotto su un campione di 1.200 donne rivela come l'uso dell'ossitocina durante il travaglio indotto possa portare dei rischi, seppur minimi, in fase di parto per il bambino e la madre.
Uno studio, condotto da un team di ricercatori britannici, olandesi e danesi e pubblicato sulla rivista British Medical Journal (BMJ) fa luce sull’uso dell’ossitocina (l’ormone che stimola le contrazioni) durante le fasi del travaglio indotto.
I risultati dell’analisi svolta mostrano un aumento, seppur minimo, di rischio di parto cesareo per quelle donne che, durante le successive fasi del travaglio, sono sottoposte a un’interruzione di ossitocina. I ricercatori hanno seguito un campione di 1.200 donne per 4 anni durante le varie fasi del parto indotto. Ecco cosa si è scoperto.
Un parto su 4 viene indotto artificialmente, ovvero stimolato grazie all’uso dell’ossitocina, l’ormone che va a stimolare le contrazioni. Il travaglio indotto, solitamente, viene praticato quando si percepisce un rischio per la salute della madre o del bambino oppure in caso di gravidanza protratta.
Dunque, l’ossitocina viene spesso somministrata per stimolare le contrazioni. Ma, se viene somministrata in dosi eccessive durante il travaglio, le contrazioni possono diventare troppo frequenti così come perdurare troppo a lungo (condizione, questa, nota come iperstimolazione uterina).
L’iperstimolazione, spiegano i ricercatori, può causare danni anche gravi poiché riduce il flusso di sangue e l’ossigeno al bambino.
Alcuni studi precedenti hanno dimostrato che la donna, quando è in fase di travaglio attivo, ovvero che presenta contrazioni regolari e forti, il processo del travaglio continua anche se l’ossitocina viene interrotta. Questa interruzione si traduce in un minor rischio di subire un parto cesareo.
Sui risultati mostrati dagli studi precedenti, gli esperti, oggi, hanno sollevato molti dubbi ritenendo che ancora non sia chiaro se interrompere la stimolazione dell’ossitocina sia la cosa migliore da fare in fase di travaglio avviato.
Il team di ricercatori britannici per indagare in modo più approfondito il tema dell’ossitocina nelle fasi del travaglio indotto, ha studiato dal 2016 al 2020, un campione di 1.200 donne stimolate con ossitocina per via endovenosa durante la fase latente del travaglio indotto (iniziale).
Le future mamme sono state divise in due gruppi e spinte in modo del tutto casuale a scegliere se interrompere o meno la stimolazione dell’ossitocina nella fase attiva del travaglio (successiva alla fase iniziale).
L’obiettivo degli scienziati era quello di osservare, attraverso il monitoraggio continuo, se le donne avessero dovuto a sottoporsi a un taglio cesareo o meno.
Nei due gruppi in esame, sia lo stato di salute sia lo stile di vita che la storia medica dell’intero corso della gravidanza erano simili. Per le donne che avevano optato per l’interruzione dell’ossitocina, i ricercatori hanno associato:
I risultati che includevano l’esperienza del parto per le donne e la salute del bambino in generale, invece, sono risultati simili per entrambi i gruppi analizzati.
L’unica e principale limitazione dell’analisi effettuata, spiegano i ricercatori, è stata la percentuale elevata di donne che hanno interrotto il trattamento assegnato.
Tuttavia, si sottolinea che questo è il più grande studio effettuato sull’interruzione della stimolazione dell’ossitocina nella fase attiva del travaglio indotto. Concludendo, gli stessi autori della ricerca hanno detto:
In un contesto in cui può essere garantito uno stretto monitoraggio sia della madre sia del bambino, l’interruzione di routine della stimolazione dell’ossitocina può portare a un piccolo aumento del tasso di taglio cesareo, ma il rischio significativamente ridotto di iperstimolazione uterina e frequenza cardiaca fetale anormale può essere un importante vantaggio in ambienti in cui le risorse di monitoraggio sono limitate.
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