Le profonde innovazioni cliniche rese possibili dall’analisi del DNA libero fetale (cfreeDNA) circolante nel sangue materno sono oggetto, da diversi mesi, di analisi e discussione tra ginecologi e
genetisti di tutto il mondo. Per la prima volta in Italia, se n’è parlato al CAM di Monza venerdì 20 settembre nell’ambito di un convegno a cui hanno partecipato più di un centinaio tra ginecologi e genetisti, oltre a relatori di rilevanza internazionale, con l’obiettivo di confrontarsi sulle evoluzioni scientifiche nel settore e giungere ad una visione condivisa.

Fino a poco tempo fa, gli approcci nel campo della diagnosi prenatale erano rappresentati unicamente da indagini ecografiche, test di screening biochimico, esami invasivi per ricerca del cariotipo fetale. Il progredire della ricerca e dello sviluppo della biologia molecolare, anche in considerazione dell’innalzamento dell’età riproduttiva, ha permesso di implementare sistemi di diagnosi prenatale non invasivi, atti ad individuare il rischio di alcune anomalie cromosomiche fetali a partire dall’analisi del sangue materno.

Il tema affrontato oggi mette l’intera comunità dei medici di fronte ad una sfida non indifferente – esordisce Vera Bianchi, medico genetista presso la UOD di Genetica Medica della Clinica Mangiagalli – Fondazione Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano –. È giunto il momento di dibattere sui nuovi traguardi nell’ambito della diagnostica prenatale con la massima
serietà, in un campo dove si incontrano genetica, ginecologia ed etica. La diagnosi prenatale è infatti strettamente correlata con lo scopo del test e deve essere sempre accompagnata da un counseling preliminare che chiarisca il bisogno effettivo della coppia”.

Al convegno sono intervenuti Federico Prefumo e Nicola Persico, medici dirigenti rispettivamente presso Spedali Civili di Bergamo e Clinica Mangiagalli di Milano. I due autorevoli relatori hanno illustrato alla platea lo stato dell’arte e i nuovi orizzonti dello “screening del primo trimestre”. “Ad oggi nella pratica sanitaria, il test combinato del primo trimestre è l’esame con il miglior rapporto beneficio/danno, poiché offre la migliore accuratezza diagnostica. Chiaramente l’introduzione di un nuovo test su plasma materno apre scenari totalmente nuovi e rivoluzionari sotto il profilo dell’individuazione delle aneuploidie fetali” – conclude Persico.

Sul tema si è espresso Thomas Musci, docente di Ostetricia e Ginecologia presso l’Università della California, San Francisco: “Gli studi e le pubblicazioni dimostrano che il test prenatale effettuato su sangue materno per l’individuazione delle trisomie fetali ha un grado di attendibilità superiore al 99% nel rivelare la trisomia 21 e percentuali leggermente inferiori per le trisomie 18 e 13. Rispetto al test combinato del primo trimestre, questo esame presenta una detection rate maggiore e una significativa riduzione dei casi di falsi positivi, che risulta inferiore allo 0,1 %. Le evidenze scientifiche aprono dunque a nuovi orizzonti nella pratica ostetrica e nell’utilizzo di questi test rispetto a quelli tradizionali.

Tre anni fa era impensabile un incontro come quello di oggi, volto ad affrontare un tema ormai al vaglio della comunità medica mondiale – sottolinea Vincenzo Cirigliano, responsabile di Genetica Molecolare per il gruppo europeo Labco – Basti pensare che la scoperta del DNA fetale libero nel sangue materno risale solo al 1997; negli ultimi anni sono stati fatti degli enormi passi avanti in campo scientifico, che hanno permesso di utilizzare il materiale biologico per la rilevazione di trisomie e di mutazioni genetiche fetali”.

La grande portata di questo test risiede nella possibilità di evitare che le donne vengano indirizzate inutilmente a delle procedure invasive (villocentesi e amniocentesi) – spiega Marianna Andreani, ginecologa referente per la diagnosi prenatale al CAM Centro Analisi Monza. “Il 5% di falsi positivi del test combinato del primo trimestre, infatti, significa oggi che migliaia di gestanti si espongono inutilmente ad un rischio di perdita fetale dello 0,5%/1%”. “Recentemente, inoltre,” – prosegue Andreani “sono stati pubblicati studi che dimostrano come una diagnosi tempestiva della Sindrome di Down mediante diagnosi prenatale non invasiva (in inglese NIPT) potrà rendere possibile un trattamento in utero con conseguente miglioramento in particolare dell’outcome neurocognitivo”.

Diversi relatori hanno evidenziato l’importanza fondamentale del counseling, durante il quale lo specialista deve far comprendere alla donna (o alla coppia) tutti i vantaggi ma anche i limiti di tale metodica. I nuovi test di diagnosi prenatale non invasiva, infatti, pur garantendo la totale sicurezza per la madre e per il feto (non invasività) e valori di accuratezza molto alti (oltre il 99% nella rilevazione del rischio di trisomia 21), restano esami di screening e non diagnostici. A tal proposito si è espressa anche Anna Locatelli, direttore di struttura complessa di Ostetricia e Ginecologia A.O. Vimercate-Desio Presidio di Carate-Giussano, sottolineando che è dovere del medico informare le pazienti di questa nuova opportunità, ma anche garantire loro una completezza informativa.

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