A sentire loro – gli annunci perfetti su Instagram, le pubblicità gioiose, i racconti entusiasti delle amiche, non ero normale.

Non era normale, che non mi fossi sentita la persona più felice del mondo, alla scoperta di essere incinta, e che fossi rimasta con il test di gravidanza immobile in una mano, il telefono per chiamare nessuno nell’altra e uno sguardo stupefatto sulla faccia.

Non era normale, che alla prima ecografia non avessi pianto di commozione per quel cuoricino che batteva insieme al mio (be’, più forte del mio). Non era normale che non corressi a prendere tutine e minuscole scarpine, ogni volta che incrociassi un negozio per bambini.

Non era normale che non parlassi con entusiasmo di nausee, visite mediche e nomi ipotetici da dare alla creatura in arrivo.

Non era normale, insomma, che non mi sentissi mamma, pur essendo incinta. D’altronde, si diceva, avevo tutte le carte in regola: quel figlio era cercato, non arrivava a sorpresa. Avevo un compagno da molto tempo, un lavoro stabile, una casa abbastanza spaziosa da non dover pianificare un imminente trasloco.

Ero la candidata perfetta a essere mamma, ma non mi sentivo tale

Agli occhi degli altri, insomma, ero la candidata perfetta a fare la mamma. E in effetti era tutto vero: anche per questo mi sentivo ancora più in colpa per quell’estraneità che provavo nei confronti della pancia che cresceva, del mio corpo che cambiava e della gigantesca trasformazione che la mia vita, la nostra vita, avrebbe affrontato di lì a poco.

Mi sentivo in colpa soprattutto nei confronti di quel bambino molto voluto, ma non ancora amato come avrebbe meritato.

Ho passato gran parte della gravidanza a fare le due cose seguenti: la prima, sentirmi in colpa. Perché non mi sentivo come avrei dovuto sentirmi, come se ci fosse una regola valida per tutti, un “click” che ti scatta dentro e che scatta per tutte, in un momento esatto, preciso, preferibilmente, appunto, alla vista di quella linea colorata in più sul test che ti dice che sei incinta.

La seconda cosa che ho fatto è stata soffrire. Perché io per prima non mi sentivo “normale”. Sapevo che stavo affrontando la gravidanza in un modo diverso da molte altre donne, da molte mie amiche che ci erano passate prima di me o ci stavano passando.

Pensavo di essere l’unica a provare più ansia che gioia, a sentirmi sopraffatta dal senso di inadeguatezza più che dall’eccitazione della grande novità. Una novità a cui, pure, mi ero preparata con grande entusiasmo.

Il senso di colpa e la vergogna

Ricordo la difficoltà con cui condividevo quel che ci stava succedendo. Non mi sentivo a mio agio nell’incontrare persone conosciute, nel dover fingere una felicità che non mi apparteneva e che invece inspiegabilmente illuminava loro, alla vista della mia pancia, di apparire strana.

Di sentirmi appiccicare addosso l’etichetta di cattiva mamma prima ancora di esserci arrivata, a essere mamma.

Mi vergognavo: provavo vergogna perché non sentivo ancora quel legame speciale che, ero sicura, prima o poi sarebbe arrivato. Doveva arrivare: sì, ma quando?

Le settimane passavano, i mesi anche, la data del parto si avvicinava a passo stanco e pesante (come il mio). Nel frattempo mi impegnavo il più possibile nel fare quello che era giusto fare: non trascuravo un certo tipo di alimentazione, non rinnegavo una lunga passeggiata, non schivavo i pluri-controlli medici. Niente di tutto questo. Solo, il più delle volte era come se riguardasse qualcun altro. Non me.

Ho scelto di sapere il sesso del bambino appena possibile, sperando che, al responso, scattasse finalmente in me quell’istinto naturale che ancora latitava, che sarei diventata la mamma che dovevo essere. “Maschio, signora”. Bene, molto bene. Fosse stata femmina? Bene, altrettanto bene.

Non era cambiato niente.

Come se il mio corpo non fosse davvero mio

Mio marito era quasi l’opposto: dopo un primo momento di smarrimento (un conto è pensarlo, un figlio, un conto sapere che è bello che in preparazione) era la felicità in persona. Trasmetteva una gioia quasi infantile, tanto autentica, tanto pura, che mi sentivo ancora più inadeguata, come se abitassi la vita di un’altra.

Come se il mio corpo fosse abitato non da una parte di me in crescita, ma da un perfetto estraneo, e che tale sarebbe rimasto: non lo capiva e io non riuscivo a dirlo, ma il suo trascinarmi a destra e sinistra, organizzare incontri con gli amici, parlarmi di quanto erano felici quegli stessi amici con figli, non migliorava la mia situazione.

Non mi avvicinava alla maternità e paradossalmente mi allontanava anche da lui: anziché contagiarmi con il suo entusiasmo spegneva ulteriormente il mio.

È stato un momento difficile: così vicini eppure lontani, come non eravamo mai stati, in tanti anni di relazione.

La nascita del bambino

Quando Alessandro è nato, sano e bello, non pensavo già più che le cose sarebbero granché cambiate. Anzi, per quanto possibile, mi sentivo preparata ad affrontare anche quella nuova delusione.

In ospedale, in un momento di fragilità più intenso, dopo ore di insonnia e con la fatica fisica del parto ancora addosso, un’ostetrica si è avvicinata a me, chiedendomi se andasse tutto bene.

Non era la solita domanda di routine: mi ha guardata davvero, e lì, senza ormai energie, davanti a un’estranea, sono riuscita a tirare fuori quello che provavo, tutto il senso di colpa, la paura di non essere all’altezza, di non arrivare mai a sentirmi mamma, pur volendolo disperatamente.

Lei mi ha ascoltata, e mi ha detto, con grande semplicità, quello che, in tanti mesi, nessuno mi aveva detto, e sollevandomi di colpo da settimane e settimane di incertezza e sofferenza: “È normale”.

È normale, non sentire subito quel legame unico con il proprio figlio. È normale avere dubbi e paure. Mi ha consigliato di parlare del mio stato d’animo con mio marito, mettendo da parte la paura di deluderlo. Così ho fatto. Ci siamo confidati le reciproche paure, ignorando fino a quel momento quante fossero, per entrambi. È stata una liberazione immensa.

Nei giorni successivi, dopo il ritorno a casa, le cose sono cambiate: il legame con il mio bambino si è sviluppato naturalmente, un giorno dopo l’altro, mentre imparavo a conoscerlo, imparavo a dire “è il mio bambino”, e poi sì, a pensare “sono la sua mamma”. E a esserne felice.

È stato molto emozionante arrivarci: l’ho vissuta come una doppia conquista, una scoperta tanto meravigliosa quanto sorprendente. A quel punto sapevo di non essere sola, sapevo che molte donne sperimentano quel mio stesso senso di estraneità nel passaggio verso la maternità.

È giusto imparare a parlarne, a superare quel senso di colpa e la paura di essere giudicate: la maternità non ha la stessa forma per tutte, non si manifesta allo stesso modo e nello stesso momento.

Non c’è niente di male in questo: e adesso posso dirlo, non siete sbagliate. Non siamo sbagliate. Parlare di quello che ci succede, accettare le nostre paure per imparare a gestirle è il primo passo per non alimentare ulteriormente quelle stesse paure, giustificate, che ci accompagnano lungo la strada della maternità.

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