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"Perché non sono felice?" e altre 4 domande di neo mamme. Risponde la psicologa

La società tende ancora a idealizzare la maternità come un periodo esclusivamente felice, e molte neomamme si sentono inadeguate o giudicate quando sperimentano difficoltà emotive. Questa pressione sociale può portare le donne a nascondere i loro sintomi di ansia o depressione per paura di essere etichettate come "cattive madri" o di essere incomprese dal proprio contesto familiare e sociale.

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Diventare madre è un’esperienza profondamente trasformativa, carica di emozioni contrastanti che spaziano dalla gioia alla vulnerabilità.

Durante la gravidanza e nel periodo successivo al parto, le neomamme si trovano ad affrontare non solo i cambiamenti fisici, ma anche una serie di sfide psicologiche. Questo periodo, noto come perinatale, rappresenta un momento cruciale per la salute mentale delle donne.

Come stanno le neo-mamme?

Secondo l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), una donna su cinque sviluppa problemi di salute mentale nel periodo perinatale, tra cui depressione e ansia, con la depressione peripartum che emerge come il disturbo più frequente.

I dati raccolti dal Network Italiano sulla Salute Mentale Perinatale indicano che circa il 24,5% delle donne in gravidanza o nel post-parto presenta un rischio di depressione, mentre il 15,4% soffre di ansia. Queste condizioni, se non trattate, possono influenzare negativamente la salute della madre e del neonato, e le relazioni familiari​.

Salute mentale perinatale: perché è così difficile chiedere un supporto psicologico?

Nonostante l’importanza del tema, molti disturbi restano non diagnosticati o non trattati adeguatamente. Perché? Uno dei maggiori ostacoli che impedisce a molte donne di chiedere aiuto durante il periodo perinatale è lo stigma che circonda la salute mentale.

A confermarlo, sono anche i molti interrogativi e racconti che arrivano dalla community di GravidanzaOnLine, tra i quali abbiamo scelto le cinque domande sottoposte di seguito alla dottoressa Alice Aceto, Psicologa Clinica e Psicoterapeuta, attiva su Mama Mind, il primo centro medico online dedicato interamente alla salute della donna, nato dall’esperienza di Mama Chat.

Questo stigma è particolarmente dannoso poiché, come evidenziano i dati dell’ISS, molte donne non ricevono il supporto necessario in tempo e solo una minima parte di coloro che ne hanno bisogno accedono a servizi di psicoterapia specifici per la salute mentale perinatale come quelli forniti da Mama Mind, l’ambulatorio virtuale che riunisce professionisti e professioniste che offrono assistenza qualificata e personalizzata, attraverso psicoterapie e colloqui.

Salute mentale materna: 5 domande alla psicologa da 5 neomamme

Domanda 1. Mia figlia è sana e dorme, mi dicono che sono fortunata. Eppure io mi sento stanca, infinitamente stanca e spossata, e questo mi fa sentire in colpa, come se non ne avessi il diritto.

Diventare genitori è un’esperienza ricca di emozioni e significati che le neomamme e i neopapà sono chiamati a fronteggiare con sempre maggior consapevolezza, maturità emotiva e competenze relazionali. Chi diventa genitore è oggi coinvolto in un percorso di crescita personale e di aumento delle conoscenze teoriche e pratiche che, con grande coraggio e forza di volontà viene intrapreso pur sapendo di far parte di un contesto culturale che non sempre tiene conto di questi sforzi. Anzi, i giorni del puerperio, i primi anni di vita dei bambini e i temi legati alla genitorialità sono impregnati di stereotipi di vecchia data davvero duri a morire!

Per i genitori non è un’impresa facile: da un lato i corsi preparto, la scrupolosa assistenza di ginecolog*, ostetric*, puericultrici, pediatri, psicolog* e pedagogist*, dall’altro una cultura di superficie che di popolare non ha molto, poiché in qualsivoglia cultura è risaputo che i neogenitori hanno bisogno di maggiori attenzioni e cure. Questa cultura dello stereotipo si fa portatrice di valori che schiacciano le donne e gli uomini nella condizione di sentirsi inefficaci nel loro ruolo, inadeguati rispetto a ciò che ci si aspetterebbe da loro in quella specifica fase di vita.

Ecco quindi che le mamme o i papà cercano aiuto sentendosi in qualche modo sbagliati:

Ho una bambina sana, che dorme e non da particolari problemi, mi dicono tutti che dovrei sentirmi fortunata…

Questa è una delle molte frasi che i genitori, preoccupati, portano nel setting psicologico. È innegabile che l’avere un bambino che nasce sano e con buoni bioritmi aiuta i genitori nell’impegnativo compito di adattarsi alla nuova vita insieme, tuttavia è necessario un cambio di prospettiva, sia interno e personale, che esterno e culturale: avere un figlio è un’esperienza tanto naturale quanto rivoluzionaria.

Gli adattamenti richiesti ai genitori sono profondi e radicati nella quotidianità (ad esempio l’allattamento, l’accudimento, l’affidamento a caregivers, le scelte lavorative e personali, i rapporti con le famiglie d’origine ecc.) così come nella storia personale di ciascun individuo (come possono essere il benessere psicologico pregresso, la storia di sviluppo della persona, la storia della ricerca, della gravidanza e del parto, ecc).

Pretendere che una neomamma sia serena, appagata e sorridente per il solo fatto che ha un figlio sano, è riduttivo e stereotipico rispetto alla complessità emotiva, fisica e relazionale che il diventare genitori richiede.

Non deve quindi spaventare il fatto di vedere delle mamme o dei papà stanchi o inquieti anche se il loro bambino dorme tutta la notte, al contrario: tutta questa fatica è un vissuto legittimo e il sonno o la salute dei neonati sono solo alcuni dei tanti fattori che costituiscono l’esperienza della genitorialità. Raggiungere uno stato di equilibrio e di benessere richiede tempo e consapevolezza. Aiutare i genitori in un percorso di comprensione e accettazione delle proprie paure, angosce, ma anche risorse e potenzialità li aiuta a smettere di vergognarsi, di sentirsi inefficaci o inadatti e permette loro di andare nella direzione di quel delicato e preziosissimo adattamento alla nuova vita insieme.”

Domanda 2. Perché anche se ho desiderato a lungo essere madre, ora che lo sono diventata ho paura di essermi sbagliata e che non avrei dovuto diventarlo.

“Il primo mese dopo l’arrivo del neonato è generalmente considerato il più duro in termini di adattamento fisico ed emotivo da parte dei genitori. In aggiunta, il periodo del puerperio, ossia le sei settimane circa consecutive al parto, richiede al corpo il graduale ritorno a quello che era prima della gravidanza. Se da un lato il corpo della donna viene travolto da una serie di eventi fisici e ormonali che la riportano a una condizione di normalità rispetto a quanto avvenuto nel corso della gravidanza, in un processo diametralmente opposto nasce in lei e nel* partner la consapevolezza che nulla di tutto il resto (o quasi) potrà più essere come prima. Anche per chi ha desiderato con tutte le proprie forze un figlio, l’incontro e a volte lo scontro con le nuove consapevolezze e le sfide dell’accogliere la vita possono essere destabilizzanti.

È molto comune, nel setting psicologico, accogliere neo-genitori spaventati e preoccupati di aver provato emozioni contrastanti nei confronti del figlio, sentimenti che tuttavia raramente assumono le sfumature del reale rifiuto o distacco rispetto alla nuova vita.

Se in questo secondo caso sarà certamente utile affrontare con tempestività il malessere dei neogenitori con interventi professionali e specifici, ben diversa è invece la condizione di essere attraversati da pensieri e paure, che tuttavia rimangono soltanto pensieri e paure e che sono del tutto umani, ossia costituiscono parte della nostra specificità di esseri umani, sintomo positivo di un processo di rielaborazione che l’individuo sta mettendo in atto per ri-adattarsi alle sfide del presente.

Le variazioni ormonali, i vissuti della gravidanza e del parto, la percezione di sé, del* partner e del supporto familiare possono influire notevolmente sul benessere psicologico del neo genitore. Parallelamente, esprimere le proprie angosce, come anche il dubbio del

Forse non sono adatta ad essere una mamma, ho sbagliato tutto!

è uno strumento efficace e potente per iniziare a parlare di come ci si sente e di come possa far paura vedere la propria vita cambiare nell’arco di un travaglio e di un parto. Tutto ciò rientra nella normalità dei vissuti del post-partum, per un periodo che può durare anche diversi mesi: è l’espressione delle proprie fragilità e dei propri bisogni emotivi, ed è in questa direzione che la connessione emotiva con il/la partner, la rete familiare, il supporto degli operatori sanitari e dei servizi dedicati come i consultori possono sostenere efficacemente l’individuo nell’impegnativa transizione dal “forse non sono adatt* a fare il genitore” a “mi impegno per essere il genitore che desidero essere”.

Se tuttavia queste angosce risultano alla mamma o al papà pervasive, intrusive rispetto alla quotidianità e al legame affettivo con il neonato o faticano ad affievolirsi, chiedere il supporto di un terapeuta specializzato, parlarne con il medico di base, la ginecologa o l’ostetrica può fare la differenza.”

Focus: Mama Mind è il primo centro medico online dedicato interamente alla salute della donna, nato dall’esperienza di Mama Chat, e con al suo interno professionisti e professioniste specializzati nella salute mentale perinatale come la dottoressa Alice Aceto, Psicologa Clinica e Psicoterapeuta che risponde qui alle domande di cinque neo-mamme.

Domanda 3. Mio marito vorrebbe un secondo figlio ma io ho il terrore di non riuscire a volergli bene, o comunque non tanto quanto ne voglio al mio bambino.

La scelta di avere e accogliere un altro figlio è, in ordine di importanza, alla pari di quella dei precedenti. La società si fa sovente portatrice di messaggi stereotipici quali

“Hai fatto il maschio, ora ci vuole la femminuccia!” e viceversa, oppure “Non c’è il due senza il tre!” oppure il “Non vorrai lasciarla figlia unica? Sarà sola per sempre!”.

Insomma, una carrellata di frasi più o meno esplicite che i genitori si sentono arrivare da più fronti. Al contrario di ciò che questo genere di espressioni vogliono far pensare, ossia che una volta aperte le danze della riproduzione ci si debba sentire in obbligo di farlo secondo le prescrizioni popolari, i genitori contemporanei prendono in seria considerazione l’eventualità, o meno, di avere altri figli.

È cambiato l’approccio alla genitorialità, all’educazione e alla consapevolezza delle sfide quotidiane. Allo stesso tempo si è modificato lo sguardo sulla donna, sull’uomo e sui loro ruoli all’interno della società: in famiglia, a lavoro, nel tempo libero, ecc.

Sull’onda di questa evoluzione identitaria, anche l’allargare la famiglia assume significati profondi e molto importanti che le persone non sottovalutano, facendosi portatori assertivi di responsabilità e obiettività rispetto alle proprie risorse personali e concrete. In tale cornice, succede sovente che un membro della coppia si senta più pronto rispetto all’altro alla ricerca di un ulteriore figlio.

In questa asimmetria di sentimenti e sensazioni può sorgere spontanea l’angoscia di non essere in grado di affezionarsi e amare il nuovo arrivato così come è stato per i figli o il figlio precedenti.

Questa paura, del tutto legittima, è spesso portatrice di significati più profondi, e di come una nuova gravidanza può stravolgere gli attuali equilibri, forse anche faticosamente raggiunti, conducendo l’individuo a ulteriori adattamenti. C’è molta differenza, per esempio, tra l’avere un solo figlio e averne due. Le dinamiche interne alla triade genitori-bambino cambiano nettamente e gli sforzi emotivi sono ora indirizzati non solo ai bambini, ma anche alle interazioni tra di loro. Esserne spaventati è normale, ed è giusto che ognuno possa fare una scelta consapevole.

Il timore di non riuscire ad accogliere un ulteriore figlio ha radici anche nella vita quotidiana del genitore, che potrebbe temere di viverlo come un vedersi nuovamente portare via l’equilibrio faticosamente ricostruito: questa è una sfida oggettiva e reale di chi sceglie di avere più figli, una richiesta emotiva che il genitore deve essere pronto ad affrontare senza lasciarla ricadere sull’eventuale nuovo arrivato.

Un’altra situazione psicologica che si può esacerbare di fronte alla richiesta del* partner di avere un altro figlio, solitamente il secondo, è quella del timore di togliere attenzioni al primo o di non riuscire a legarsi al nascituro come al contrario è stato in passato. Questa è una paura che alcuni genitori sperimentano, trovando quasi impossibile immaginare di poter amare un’altra creatura come si ama il primo. Poter condividere queste angosce e costruire consapevolezza rispetto al ruolo del genitore e alle sue competenze emotive e relazionali è di solito un buon modo per valutare con maggior serenità il desiderio o meno di un ulteriore figlio.

Altra circostanza possibile è quella in cui il caregiver vive l’opzione di un ulteriore bambino con il timore di perdere l’esclusività nel rapporto, la sensazione di centralità e indispensabilità, così come la sensazione di perdita di controllo. Si ha fortemente paura che l’altro figlio non accetterà la nuova gravidanza, patirà la presenza del nuovo arrivato e si vedrà sottrarre l’amore dei genitori. Questi possono essere segnali che nel rapporto caregiver-bambino si muovono dinamiche personali irrisolte dell’adulto e la richiesta di un supporto psicologico può aiutare la persona a centrarsi nel suo ruolo genitoriale e superare nodi irrisolti del suo percorso di vita.

Tutta questa variabilità testimonia la sfida e la complessità che la genitorialità porta con sé; è importante che le mamme e i papà si concedano di condividere, esprimere e valorizzare le proprie emozioni, in un’ottica di potenziamento delle proprie risorse personali, tenendo sempre a mente che la genitorialità è, al pari di un lungo viaggio, un percorso sfaccettato e in continua evoluzione dove tutto cambia, continuamente.”

Domanda 4. Sono un mamma adottiva che non ha quindi né partorito, né allattato suo figlio. La società sembra sottintendere in continuazione che la mia sia una maternità di serie B. 

“Diventare genitori è un’esperienza molto complessa e piena di sfaccettature, l’ho ripetuto più volte. Diventare genitore adottivo richiede sforzi emotivi e personali altrettanto intensi e travolgenti.

I genitori adottivi accolgono la grande avventura della genitorialità con un ventaglio di incertezza e imprevedibilità rispetto a chi sarà il loro bambino e questo li mette nella condizione di dover espandere le loro risorse personali, tanto quanto i confini identitari. Tuttavia, talvolta vivono silenziosamente o con vergogna l’avvio della genitorialità, sentendola in qualche modo “difettosa” rispetto a un criterio di “normalità”.

Nel loro caso, alla gravidanza e al parto si sono sostituiti mesi o anni di attesa, incertezza e preoccupazione. In alcuni casi sono genitori che hanno affrontato senza successo percorsi di procreazione assistita, ma possono anche essere genitori che per scelta hanno deciso di adottare piuttosto che concepire. È un percorso pieno di senso e significato che ciascun individuo è chiamato a cucire sulla propria pelle, e quando finalmente la tanto sperata buona notizia arriva e un* bambin* adottiv* riempie le braccia dei suoi genitori, lo stravolgimento emotivo e psicologico non ha nulla da invidiare all’altalena ormonale del puerperio e del post-partum.

La mamma adottiva, in alcune circostanze e talvolta dopo un percorso di infertilità che ha lasciato cicatrici nell’autostima e nel senso di sé, può sperimentare la sensazione di non essere sufficientemente mamma in quanto non ha portato la bambina in grembo o non l’ha allattata. Questo vissuto può travolgere la donna e farle provare uno spettro di emozioni quali vergogna, tristezza e paura molto intense.

Proprio come per qualsiasi altro neo genitore, adattarsi alla nuova vita, ai bioritmi del bambino, al suo carattere e ai suoi bisogni è impegnativo e richiede profonde energie emotive.

La mamma adottiva dovrà fare i conti con il proprio corpo e la propria storia, e con il corpo e la storia del proprio bambino che sono molto diversi dal suo.

Questa è parte della complessità e delle sfide che i genitori adottivi sono chiamati a vivere. Il supporto del* partner, della famiglia di origine e della comunità sono fondamentali per aiutare i genitori adottivi nel riconoscersi a tutti gli effetti come tali, pur non avendo concepito quel bambino attraverso il corpo.
È molto normale sentirsi spaesati, spaventati e temere di non essere all’altezza.

Inoltre, non si ha avuto il periodo della gravidanza per imparare a conoscere il proprio figlio, né talvolta la possibilità di allattare come strumento di creazione del legame affettivo. È importante supportare i genitori nell’espressione di ciò che sentono, senza respingere o giudicare le loro emozioni. Talvolta i genitori adottivi sentono di non poter manifestare le loro paure o fragilità perché correrebbero il rischio di essere tacciati come irresponsabili, poiché l’hanno atteso così tanto e l’hanno desiderato così a lungo.

Questo è uno stereotipo disfunzionale e controproducente, poiché è palese come i genitori adottivi vadano incontro a una scelta intensa, grande e certamente desiderata, ma al pari di qualsiasi altra esperienza di genitorialità portatrice di sfide, successi e insuccessi, cambiamenti e adattamenti intensi.

Prestare attenzione ai segnali di allarme è, anche in questo caso, prezioso al fine di intervenire tempestivamente a supporto della famiglia: qualora il senso di smarrimento, preoccupazione e angoscia non dovesse risolversi spontaneamente nell’arco di alcune settimane, o avesse la tendenza ad essere pervasivo, fuori controllo e inficiante rispetto alla quotidianità con il bambino o il/la partner, è importante parlarne con uno psicologo, il medico di base o la ginecologa al fine di offrire alla persona un adeguato supporto affinché il percorso di genitorialità possa avviarsi con maggior serenità.”

Domanda 5. Dopo la nascita del nostro primo figlio, il rapporto tra me e mio marito è totalmente cambiato. Sembra che lui si senta messo da parte, quasi minacciato dalla presenza di nostro figlio e dalle attenzioni che lui mi richiede e ha da parte mia. Sicuramente è anche colpa mia: il mio desiderio sessuale è crollato e le mie priorità cambiate. 

“La scelta di diventare genitori è, per chi decide di perseguirla in coppia, senza ombra di dubbio una delle più importanti e travolgenti della vita a due. Già dal momento dell’emersione e della condivisione del desiderio di allargare la famiglia, alla diade è richiesta la capacità di ascoltare, empatizzare e sostenere le emozioni proprie e del* partner. Quello della gravidanza, del puerperio e della genitorialità assume pertanto le sfumature di un’esperienza prima di tutto emotiva e relazionale, ancor più che fisica e concreta.

Per le coppie che riescono a coronare il loro desiderio di avere un bambino, sia esso biologico o adottivo, il rapporto tra i partner è uno dei fattori protettivi per eccellenza rispetto al rischio di incorrere in un malessere psicologico. Sperimentare una vita di coppia appagante in termini di vicinanza emotiva, sostegno percepito, condivisione aperta dei propri vissuti e valori permette alle neomamme e ai neopapà di vivere efficacemente la fase di transizione dal Noi tra partner al Noi col bambin*.

Nello specifico del periodo della ricerca di un figlio, della gravidanza e del post-partum, spesso è la donna a dover convivere con gli stravolgimenti fisici ed emotivi più intensi, venendo il suo corpo a incontrare le grandi modificazioni che la maternità comporta. Talvolta, l’altr* membro della coppia può sperimentare il senso di impotenza o estraneità di fronte ai cambiamenti che esulano dal proprio controllo, ed è nel potere della condivisione e dell’espressione dei propri vissuti emotivi che una coppia dotata di buone risorse empatiche può ritrovarsi e sostenersi anche in questa prima fase.

Da un lato quindi gli stravolgimenti fisici e ormonali sulla mamma, dall’altro le paure, il senso di impotenza e il desiderio di protezione e accudimento da parte del* partner. In mezzo, è fondamentale proteggere le proprie competenze relazionali ed emotive, la vicinanza all’altr* in grado di permetterci di sperimentare sicurezza, appagamento e protezione nell’incontro con l’altro.

Il periodo perinatale, quindi quello che va dalla ricerca di un figlio fino ai primi anni post nascita, chiede alle coppie grandi sforzi di adattamento: nella capacità di comunicare, nello sforzo empatico di mettersi nei panni dell’altro e coglierne i significati e i bisogni, nell’impegno a rispettare i propri sentimenti, nella sessualità e il valore che essa assume di fase in fase. Si pensi per esempio alle coppie che vanno incontro a un percorso di PMA (procreazione medicalmente assistita). La sessualità, il corpo, le sfide emotive e l’incertezza portano la coppia a doversi adattare e a volte destreggiare tra le variabili in gioco e la paura di non riuscire a coronare il desiderio di essere genitori.

È inevitabile, e fisiologico, che il divenire genitori chieda alla coppia di voltare pagina rispetto alla vita a due e sviluppare nuove competenze: si dorme meno, si è più stanchi, si litiga di più, bisogna accettare i diversi modi di fare e vedere le cose, si scoprono insomma aspetti nuovi e a volte inaspettati dell’altr*. È altrettanto innegabile che l’immaginarsi genitori, l’intraprendere un percorso di ricerca, il diventare o non diventare mamma e papà possono creare una ancor più forte intesa e intimità tra partner, laddove un obiettivo comune si trasforma nell’occasione per sentirsi ancor più squadra, a prescindere dal risultato che si riuscirà a portare a casa.

Talvolta le coppie chiedono l’aiuto di uno specialista, spesso nel periodo perinatale, perché un figlio può in alcuni casi esacerbare più fatica emotiva e relazionale di quel che la coppia si aspettasse. Può succedere alle diadi più affiatate, e questo non deve spaventare o stigmatizzare, così come può accadere a quelle che in qualche modo portavano con loro una sofferenza pregressa. Parlare col* partner del proprio disagio nella vita di coppia, chiedere l’aiuto di un professionista e combattere l’isolamento e la vergogna sono passi fondamentali per dare un nome al proprio malessere e cercare un equilibrio migliore, volto alla ricerca del benessere individuale e familiare.”

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