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Per diventare madri è necessario, complici i profondi cambiamenti cui si va incontro, affrontare un percorso per molti aspetti complicato.
Quando si parla del diventare genitori (e in modo particolare madri) si ripete spesso che si tratta di un’esperienza che cambia la vita. Il messaggio implicito e scontato è che questo cambiamento sia sempre in meglio. In realtà non è sempre così o comunque non è così immediato e sono tante, ed estremamente forti, le trasformazioni che l’arrivo di un figlio possono determinare. Diventare madri non è automatico, ma comporta un processo, una vera e propria rivoluzione, che prende il nome di matrescenza.
Il Postpartum Support International (PSI) utilizza l’analogia con l’adolescenza, spiegando che così come quella è la fase in cui i bambini diventano adulti, così la matrescenza è il processo tramite il quale una donna diventa madre. Coniato per la prima volta negli anni Settanta dall’antropologa Dana Rafael, il concetto di matrescenza è andato sempre più diffondendosi per la maggiore sensibilità e attenzione ai temi della maternità e della femminilità.
Il parto determina la nascita del bambino, ma non immediatamente il diventare madri. Ignorare che questo cambiamento non avviene automaticamente in pochi secondi dopo aver partorito, significa ignorare quello che avviene nell’organismo femminile sin dalla gravidanza. Come sintetizzato in questo studio, infatti, la gravidanza prima e il parto e l’allattamento al seno poi, provocano una serie di fluttuazioni ormonali e trasformazioni fisiologiche estreme che non hanno eguali nella vita di una persona.
Queste trasformazioni non sono meramente transitorie, ma lasciano delle conseguenze. Anche perché il cervello femminile va incontro a una significativa trasformazione fisica (neuroplasticità cerebrale) con la crescita e la riduzione di alcune aree, la formazione di nuove connessioni tra neuroni e il rimodellamento delle sinapsi. Parallelamente le diverse regioni del cervello modificano il modo in cui comunicano e si attivano in risposta agli stimoli (neuroplasticità funzionale). Questo avviene per migliorare le capacità di riconoscere e rispondere ai bisogni del bambino.
Parlare di matrescenza non significa rinnegare la maternità, ma riconoscere quello che avviene nel corpo e nella mente (quindi nella persona) di una donna che ha un figlio. Spesso anche la stessa letteratura medica e scientifica si è concentrata sul neonato indagando il modo in cui le madri rispondono ai loro bisogni, ma sottovalutando (o addirittura ignorando) l’impatto della maternità sulle donne stesse.
Quanto avviene a livello fisico e biologico determina anche significativi cambiamenti a livello psicologico ed emotivo. Come indicato dal British Columbia Medical Journal, infatti, le donne possono sperimentare sentimenti di ambivalenza provando non solo felicità, ma anche sopraffazione, frustrazione, paura e preoccupazione.
Complici anche le aspettative sociali e la narrazione sulla maternità che idealizzano il concetto di “madre”, le donne possono vivere un senso di inadeguatezza con uno stato di profondo malessere anche in risposta ai cambiamenti ormonali che continuano durante il periodo del post-partum.
Un aspetto importante da sottolineare è anche quello per il quale una neomamma può rielaborare la propria infanzia tramite la maternità, andando incontro a una serie di ricordi e riflessioni che possono avere un impatto significativo.
A essere rivoluzionate sono anche le dinamiche familiari, non solo quelle con la propria famiglia di origine, andando incontro a tensioni (ma anche sperimentando nuove connessioni) con il partner e gli amici. Un complesso insieme di cambiamenti che può causare un forte interrogativo sulla propria identità, aumentando l’insicurezza, la confusione e la fragilità di fronte a tutto questo processo di evoluzione.
I cambiamenti biologici e quelli psicologici, emotivi e inevitabilmente anche sociali, possono avere un impatto significativo sulla salute mentale. Qui entra in gioco anche il pregiudizio sul parlare di un argomento per molti aspetti ancora tabù o del quale non si riconoscono le reali implicazioni. È importante, come chiarito dal Perinatal Anxiety & Depression Aotearoa (PADA), distinguere tra la matrescenza “fisiologica” e quella potenzialmente “patologica”.
La transizione alla maternità della matrescenza, infatti, può essere normale o causare depressione e ansia postnatale. Con l’arrivo di un figlio le donne possono sentirsi isolate, incomprese e sopraffatte dai cambiamenti che vivono, comprese le difficoltà nell’allattamento, le modifiche alla propria routine quotidiana, la mancanza di sonno, le nuove responsabilità e le difficoltà nel ritornare a lavorare (o nel trovare un impiego).
La matrescenza non è una malattia, ma un processo che interessa tutte le donne per l’insieme dei cambiamenti che avvengono in questo periodo. Non è una fase che si conclude in poco tempo e per tutte nello stesso periodo, ed è un percorso nel quale molto gioca l’individualità di ogni donna. Per questo è importante che si possa contare su un supporto professionale sia per evitare che il cambiamento determini un peggioramento della qualità della propria vita, sia per affrontare i problemi che in questa fase possono emergere.
Come anticipato, le aspettative sociali giocano un ruolo importante nella matrescenza. Complici anche i pregiudizi sulla femminilità, il passaggio alla maternità viene raccontato e presentato sempre e solo in maniera positiva. Parlare delle difficoltà, delle paure, delle insidie e anche dei problemi e fallimenti che un’esperienza di questo tipo comporta è considerato un tabù, un argomento di cui non parlare. Ammettere anche solo una stanchezza o una preoccupazione viene percepita come una negazione della maternità stessa, un errore della donna che non capisce la bellezza di essere madre e di avere un figlio.
L’errore di fondo è culturale e legato all’idea che la bellezza, le cose positive e le scelte valide della vita debbano essere prive di aspetti critici. Come se questi invalidassero le scelte fatte o come se, peggio, ignorare timori e anche ripensamenti, possa farli sparire magicamente. In questo senso non è culturalmente accettabile che una persona non sia felice e serena, figuriamoci una donna che riferisca aspetti critici della sua esperienza di maternità.
Eppure un approccio di questo tipo genera soltanto un circolo vizioso nel quale le donne sperimentano un senso di colpa per non essere felici come “dovrebbero” vivendo un senso di inadeguatezza verso un modello ideale e, per questo, irreale e irraggiungibile.
È fondamentale, possibilmente già da prima di cercare una gravidanza, avere la consapevolezza delle difficoltà cui si andrà incontro. C’è una dimensione di ignoto da considerare, in quanto non tutto è prevedibile e le reazioni psicologiche ed emotive non sono uguali per tutti. Ma resta imprescindibile approcciarsi alla maternità (e alla genitorialità, essendo anche i padri coinvolti in un processo di trasformazione) con meno aspettative “cinematografiche” e pronti a dover vivere una fase di cambiamenti.
È quindi utile organizzarsi informandosi sui servizi di assistenza e supporto ai quali poter accedere in caso di bisogno. Anche solo sapere quali sono e come accedervi è importante per non sentirsi completamente abbandonate. L’altro aspetto importante riguarda lo sforzo (anche del partner e del contesto familiare e amicale) di normalizzare la matrescenza, consapevoli che si tratta di un processo che se supportato migliora la qualità della vita delle donne interessate.
L’elemento forse più difficile, anche per il contesto culturale in cui si vive, è quello di pensare anche a sé stesse, al proprio tempo, ai propri bisogni e alla propria vita relazionale e sociale. Farlo non significa sacrificare gli interessi del bambino, ma dargli la possibilità di avere una madre serena e sana e, quindi, più in grado di amarlo e seguirlo nella crescita. E, infine, per quanto forse il soggetto più fragile, gli interessi del bambino non possono sempre prevalere su quelli della madre. Anche per questo è importante il ruolo del padre del bambino, che non è un aiuto alle necessità della madre, ma l’altro genitore che ha le medesime responsabilità e interessi a crescere il figlio trovando ogni volta l’equilibrio migliore per evitare che la crescita della propria famiglia rappresenti per un suo componente un momento di disagio.
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