Fin dall’infanzia, siamo bombardati dall’idea che le donne possiedano un’innato istinto materno, pronto a scattare al momento del concepimento, e a volte anche prima, per trasformarla immediatamente in una madre, portando con sé conoscenze e un insieme di comportamenti di accudimento.

Del resto, non si sente dire comunemente che la madre “lo diventa già appena scopre di essere incinta”? E che è “innaturale” non volere un figlio o, peggio, abbandonarlo.

Ma è davvero così? O quello dell’istinto materno è un mito, creato e alimentato per intrappolare le donne nel ruolo di madri e rendere “naturale” l’esecuzione di tutta una serie di compiti, idealizzando al contempo la maternità sacrale?

Ylenia

chiede:

L’istinto materno esiste?

La risposta breve potrebbe essere “no”, quella più elaborata è che sicuramente non esiste l’istinto materno come ci hanno abituati a pensarlo. E che “materno” non è il termine esatto per riferirsi a quello che le persone – le donne che hanno partorito, ma anche i padri e le madri che non lo hanno fatto – sperimentano dopo la nascita e mentre si prendono cura di un neonato.

Ci hanno abituati a credere che l’istinto materno sia quello che porta le madri – ed esse soltanto – a sapere esattamente cosa fare una volta arrivata la nuova creatura in virtù di un determinismo biologico. È invece vero che le persone che si prendono cura “imparano facendo”, attraverso tentativi, modelli e osservando cosa funziona e cosa no con ciascun bambino.

Non solo: i sentimenti legati all’istinto materno, secondo la narrazione tradizionale, si attiverebbero (al più tardi) subito dopo il parto. Per questo, quando non si manifestano immediatamente o impiegano più tempo a maturare, molte madri provano un senso di fallimento, arrivando a pensare che ci sia qualcosa di sbagliato in loro, perché non hanno il famoso “istinto materno”, fino a sviluppare condizioni come il baby blues o la depressione post-partum.

Secondo uno studio del 2018, però, questi sentimenti di affetto si sviluppano diversi giorni dopo la nascita e alcune donne faticano a provarli anche diversi mesi dopo. E non c’è niente di strano, né di sbagliato, in questo.

E che dire dell’ossitocina, “l’ormone dell’amore”, profondamente coinvolto nell’allattamento e che sarebbe il tramite di un legame unico e speciale tra la madre biologica e il figlio?

È vero che quando si diventa genitori la chimica del nostro cervello cambia, ma questo non è legato alla biologia o al parto: gli studi mostrano che anche i padri, i genitori adottivi e le madri che non hanno portato avanti la gravidanza nelle coppie omosessuali sperimentano livelli elevati di ossitocina, serotonina e dopamina durante la transizione alla genitorialità. I genitori non sembrano mostrare alcuna differenza nei livelli di ossitocina, come dimostrato in uno studio del 2010.

Non solo: secondo una ricerca pubblicata su PNAS nel 2014, il cervello dei padri gay mostra risposte simili nei confronti dei loro bambini rispetto a quelli dei genitori eterosessuali. Gli scienziati hanno scoperto che più tempo trascorrevano con il bambino, maggiore era la connessione tra la sfera emotiva e quella cognitiva. Allo stesso modo, i livelli di ossitocina delle madri adottive aumentavano in risposta ai bambini affidati alle loro cure in modo simile a quello delle madri biologiche.

Un altro studio ha scoperto che uomini e donne sono ugualmente abili nell’identificare i pianti dei loro bambini, mostrando che la supposta risposta biologica innata della madre altro non è che un mito: i ricercatori hanno stabilito che la quantità di tempo che un genitore trascorre con il proprio bambino è direttamente correlata alla capacità di identificare i suoi pianti, non il sesso del genitore.

C’è anche un altro aspetto: gli esseri umani non si sono evoluti in famiglie nucleari, ha ricordato l’antropologa Sarah Blaffer Hrdy, autrice di Mothers and Others e Mother Nature: Maternal Instincts and How They Shape the Human Species, ma piuttosto in famiglie allargate. Anche oggi, aggiunge, i bambini possono formare legami con circa cinque individui oltre alla madre, che lei definisce “allomadri” (da allo, “diverso da” in greco) per riferirsi alle zie, agli zii, ai nonni e ai fratelli maggiori che aiutano a prendersi cura dei bambini piccoli.

Senza dimenticare il ruolo dei cosiddetti “neuroni specchio”: quello che noi confondiamo con l’istinto, secondo la scienza sarebbe invece il senso di accudimento, attivato a livello cerebrale quando un adulto vede un bambino. Questo sarebbe anche il motivo per cui i bambini sorridono agli adulti: si tratterebbe di un riflesso per assicurarsi che l’adulto della specie si prenda cura del “cucciolo”.

Perché non averlo è assolutamente normale

L’istinto materno, così come lo conosciamo, quindi, ricorda anche Olivia Gazalé ne Il mito della virilità citando la filosofa Elizabeth Badinter,

non rimanderebbe affatto a una presunta natura femminile: sarebbe un fenomeno costruito socioculturale, “infinitamente complesso e imperfetto”, che preferisce chiamare amore materno. “Lontano dall’essere iscritto nei geni è condizionato da tanti fattori indipendenti dalla ‘buona natura’ e dalla ‘buona volontà della madre,
servirebbe piuttosto un piccolo miracolo affinché quest’amore sia come ci viene descritto. Dipende non solo dalla storia personale di ogni donna […], dall’opportunità della sua gravidanza, dal suo desiderio di avere un figlio, dal suo rapporto con il padre, ma anche da ben altri fattori sociali, culturali, professionali ecc.”.

Non una verità di natural ma un mito, quindi. Per questo, è evidente che non tutte le donne, né tutte le madri lo sperimentano. Al contrario, ricorda la dottoressa Catherine Monk, psicologa e professoressa di psicologia medica nei dipartimenti di psichiatria, ostetricia e ginecologia presso il Columbia University Medical Center, molte persone scelgono di non avere figli pur esprimendo qualcosa di molto simile al “mitico istinto materno” in modi diversi, “ad esempio essendo un devoto allenatore di calcio per i bambini in età scolare o un insegnante generoso e premuroso”.

Ecco perché, dice, dobbiamo cambiare il nostro punto di vista e rietichettare l’“istinto materno” come “istinto di cura”, e quindi vedere questo comportamento dov’è, ovunque intorno a noi: non limitato alle sole madri e nemmeno ai soli genitori. Soprattutto, non è una condizione di natura che “scatta” inesorabilmente al momento del concepimento e del parto.

«Questo ‘istinto materno’, un sesto senso per il proprio figlio e ciò di cui ha bisogno, deriva dall’intensa vicinanza e dall’amore profondo, dal passare ore e pensare al bambino”», continua Monk. Implica capire le sue necessità a causa di una connessione, non di una comprensione istintiva legata alla maternità.

Forse sarebbe il caso di ricordare, conclude Gazalé,

la distinzione tra potenzialità e determinismo. Che la donna sia biologicamente equipaggiata per la maternità, che possa trarne immense gioie, non è messo in dubbio. Ma dedurre che da questo meccanismo biofisico scaturisca un’essenza femminile, necessariamente devoluta alla maternità, può avvenire solo mediante una negazione del suo libero arbitrio. La maternità è una scelta, non un destino.

I danni causati dal mito dell’istinto materno

L’istinto materno è una trappola, per tutte e tutti. Per le madri, innanzi tutto: quelle che pensano di non avere alternativa se non aderire allo “stato di natura” determinato dalla biologia. Quelle che si sentono sbagliate perché al momento del parto non scatta la magia e l’istinto materno non le trasforma in madri perfette e amorevoli che traboccano di gioia e amore per la creatura appena venuta al mondo, di cui sanno esattamente come occuparsi. Per i padri e le madri lesbiche che non hanno partorito, derubricati a genitore di serie B.

“I bambini hanno bisogno della loro madre”, ci sentiamo ripetere, perché lei è l’unica che – in virtù dell’istinto materno – sa di cosa hanno bisogno. Inevitabile, quindi, che le madri stiano a casa con i figli, spesso sole e senza alcun supporto, perché è il loro ruolo, no? Poco importa che In Italia l’11% delle madri non abbia mai lavorato, mentre chi ha un impiego spesso lo lascia o passa al part time: 1 donna su 10 rinuncia dopo il primo figlio, una percentuale che sale quando cresce il numero dei figli.

Soprattutto, però, il mito dell’istinto materno invalida le storie di tutte quelle donne che non rientrano nella narrativa della donna-madre tradizionale: non solo quelle che scelgono di non riconoscere i neonati o optano per il parto in anonimato – casi in cui gli strilli dei giornali titolano di “abbandono del proprio figlio” – ma anche quelle che decidono liberamente di essere la madre surrogato di un’altra coppia o, ancora, nei casi delle maternità sociali.

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