Con il termine child penalty si identificano le penalizzazioni subite dalle donne lavoratrici all’arrivo di un figlio, o anche solo per via della prospettiva di poter o voler diventare madri.

Esiste un’ampia letteratura che dimostra come il costo della nascita di un figlio sul mercato del lavoro sia un fenomeno riguardante le madri e praticamente mai i padri, seguendo l’idea ormai obsoleta secondo cui a occuparsi dei bisogni, primari e non, dei figli sia appunto la prima, considerata quindi il genitore sacrificabile.

Le evidenze e gli studi attualmente condotti dimostrano come anche nei Paesi scandinavi, generalmente apertissimi sulla questione della parità di genere, le donne paghino un prezzo davvero alto in seguito alla maternità, quantificabile come un reddito inferiore del 21-26% rispetto ai partner.

Child penalty: la situazione europea e negli USA

Il portale Vox ha condotto recentemente una ricerca in sei Paesi – Danimarca, Svezia, Germania, Austria, Regno Unito e Stati Uniti – che evidenzia alcuni punti in comune rispetto al tema maternità e lavoro.

Ad esempio, se in Danimarca e Svezia, negli anni fino alla nascita del primo figlio, i guadagni delle donne e degli uomini seguono quasi la stessa tendenza, in quelli immediatamente successivi alla prima nascita i guadagni delle donne diminuiscono del 30% in Danimarca e del 60% in Svezia.

Mentre l’effetto sul mercato del lavoro di avere un primo figlio è piuttosto rilevante sulle madri, sui padri non incide in alcuna maniera, o in misura davvero limitata. In Danimarca, i guadagni dei padri rimangono sostanzialmente invariati, mentre per i padri svedesi si osserva un lieve calo dopo la nascita del primo figlio, ma ciò potrebbe dipendere dal fatto di godere di un congedo parentale particolarmente generoso, o dagli incentivi promossi dal sistema svedese affinché i padri trascorrano più tempo con il figlio neonato.

In linea di massima, comunque, pur avendo questi Paesi attuato politiche che cerchino di tutelare le donne sotto molti profili, alla nascita del primo figlio le lavoratrici guadagnano in media dal 20 al 25% in meno.

Negli altri quattro Stati presi in esami lo schema generale rimane più o meno lo stesso: le donne sperimentano un forte, immediato e persistente calo dei guadagni dopo la nascita del loro primo figlio, mentre quelli degli uomini restano sostanzialmente inalterati.

A corroborare la tesi della persistenza di alcuni pregiudizi circa la figura della madre lavoratrice anche alcuni sondaggi, come quello promosso dall’International Social Survey Program (ISSP), che ha chiesto al campione preso in esame se le donne con bambini in età prescolare o scolare dovessero lavorare fuori casa (a tempo pieno o part-time) o rimanere a casa. Nei risultati emerge una fortissima correlazione tra child penalty e risposte: i Paesi in cui le penalizzazioni per le lavoratrici sono maggiori dopo la nascita del primo figlio sono anche quelli in cui le risposte sono decisamente più conservatrici, e orientate sul “no, non dovrebbero lavorare”.

La situazione italiana

Non è diversa la situazione nel nostro Paese: La Voce ha cercato di stimare la child penalty di lungo periodo basandosi su un campione di dati Inps riguardante i lavoratori dipendenti del settore privato tra il 1985 e il 2016.

Avendo preso in esame i congedi di maternità come indice della nascita del primo figlio, le retribuzioni annuali e settimanali, il numero di settimane lavorate e la percentuale di donne che ricorrono al part-time, nei cinque anni precedenti e nei quindici successivi all’anno del congedo, senza contare le mamme che volontariamente hanno abbandonato il lavoro dopo il parto, i risultati hanno mostrato, tra le altre cose che, prima della nascita, le traiettorie di donne con e senza figli risultassero praticamente identiche, per iniziare a divergere dopo la prima nascita.

A quindici anni dalla maternità, i salari lordi annuali delle madri risultano essere di 5.700 euro inferiori a quelli delle donne senza figli rispetto al periodo antecedente la nascita, ovvero il 53% in meno. I salari settimanali sono inferiori di 29 euro (6% in meno rispetto alle donne senza figli), le settimane in meno lavorate sono 11 circa all’anno, e la percentuale di donne con figli che hanno contratti part-time è quasi tripla rispetto a quelle senza figli.

Perché esiste ancora una child penalty così forte

Come accennato, ci sono innanzitutto motivi culturali alla base: si continua infatti a ritenere che siano le madri a doversi occupare della cura e della crescita dei figli – fatte salve le naturali necessità iniziali legate, ad esempio, all’allattamento, a meno che non si ricorra a quello artificiale, cui potrebbe provvedere anche il padre. Questo incide notevolmente non solo sulla loro presenza al lavoro, ma anche sulle opportunità professionali che vengono loro offerte, con le aziende restie a concedere avanzamenti di carriera alle donne.

Serve, ovviamente, un cambio culturale in primis, e un primo passo potrebbe essere la legge di bilancio 2020, che ha esteso il congedo di paternità obbligatorio da cinque a sette giorni (dieci sono quelli richiesti da una direttiva europea per il 2022), l’assegno di natalità a tutte le famiglie, svincolandolo dalla situazione reddituale e rendendolo più generoso per certe fasce di reddito, e ampliato le tipologie di famiglie che possono accedere gratuitamente agli asili.

Naturalmente l’emergenza Coronavirus ha imposto un ulteriore ripensamento delle politiche lavorative, con l’utilizzo flessibile dei congedi parentali, estesi oltre gli otto anni del figlio, i sostegni economici per i servizi di baby-sitting e la possibilità dello smart working. Si tratta del primo passo, ma ovviamente non può essere l’ultimo.

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