
La scarlattina è un'infezione molto contagiosa che non è pericolosa per la gravidanza, ma che richiede attenzione e monitoraggio.
Cosa succede alle donne sieropositive che hanno una gravidanza o che contraggono l'infezione durante la gestazione? È possibile cercare una gravidanza se uno dei due partner ha l'AIDS? Facciamo chiarezza su un argomento molto delicato.
Oggi è possibile ridurre notevolmente il rischio di trasmissione materno-fetale (che è di circa il 20%) somministrando alla donna una terapia antiretrovirale già dalle prime settimane di gravidanza. Considerando la serietà del contrarre l’HIV in gravidanza e di come ogni anno si registrano, specialmente nei Paesi in via di sviluppo, milioni di nuovi casi, è opportuno chiarire alcuni aspetti essenziali per la ricerca della gravidanza, la sua gestione e tutto il periodo successivo relativo al parto, il post-parto e l’allattamento.
Partiamo dal comprendere quali sono i rischi, per la mamma e per il bambino. Per la donna l’essere positiva all’HIV la espone all’obbligo di proseguire la terapia antiretrovirale, ma soprattutto al rischio di un parto cesareo e a dover ricorrere all’allattamento artificiale. Con tutti i rischi annessi a ciascuna di queste condizioni. Vi sono poi i rischi per il feto legati prevalentemente alla presenza di microcefalia, ai ritardi di crescita e all’ipertelorismo, ovvero una malformazione congenita per la quale vi è un anomalo aumento nella distanza tra due parti del corpo.
C’è poi tutto il rischio legato alla trasmissione dell’infezione. Tutta la gestione della gravidanza, compreso il parto cesareo programmato alla trentottesima settimana di gravidanza, è orientata ad evitare che il bambino riceva dalla madre il virus. Se in passato la probabilità di trasmissione si aggirava tra il 20% e il 45% oggi si attesta sotto al 2%. Merito delle terapie, ma anche della diagnosi prenatale che oggi consente tempestivamente di individuare la presenza del virus. Già dalla nascita, è possibile stabilire se il bambino sia sieropositivo e in tal caso intraprendere tempestivamente l’appropriata terapia antiretrovirale.
Molta attenzione va posta poi al modo in cui la donna in gravidanza e, conseguentemente, il feto, possono contrarre la malattia. La trasmissione dell’HIV avviene o per via parenterale (entrare a contatto con sangue infetto) o per via sessuale (rapporti non protetti con partner positivi) o, ancora, per via verticale. In gravidanza la metà dei casi di trasmissione dell’HIV avvengono durante il parto (motivo per cui spesso si ricorre al cesareo), ma anche, verso la fine della gravidanza, all’interno dell’utero dal contatto delle mucose del feto e il liquido amniotico.
I test per l’HIV possono (e devono) essere svolti sia prima che durante il corso della gravidanza. È infatti uno dei primi esami che viene eseguito sulle donne che scoprono di aspettare un bambino ed è uno strumento prezioso anche come screening prima di cercare una gravidanza, proprio per ridurre, tramite una corretta gestione, la trasmissione dell’infezione. L’esame per l’HIV può avvenire sia tramite prelievo di sangue, sia tramite la saliva. I test possono essere combinati, che ricercano gli anticorpi e le parti di virus presenti dall’individuo, o che rilevano solo la presenza degli anticorpi anti-HIV. Esistono anche test rapidi (acquistabili in farmacia) che, in caso di risultato positivo o dubbio devono essere confermati con il prelievo di sangue. Il test dell’HIV può essere eseguito, come previsto dalla legge italiana, esclusivamente tramite il consenso della persona.
Cosa fare, invece, se uno dei due partner è sieropositivo e si vorrebbe comunque cercare una gravidanza? In questi casi bisogna distinguere se a essere positiva è la donna o l’uomo. In entrambi i casi, se la carica virale è persistentemente non rilevabile, è possibile cercare una gravidanza per vie naturali, in quanto il rischio di trasmissione è scientificamente insignificante.
Se è la donna a essere positiva all’HIV è necessario che prosegua la terapia antiretrovirale per tutto il corso della gravidanza in modo da mantenere bassa la carica virale. Lo stesso discorso vale per l’uomo che con la terapia antiretrovirale riduce la propria carica virale riducendo al minimo il rischio di trasmissione sessuale dell’infezione.
Inoltre va sottolineato come le donne negative all’HIV partner di uomini positivi al virus non trasmettono l’infezione al feto. È comunque fondamentale che la coppia assuma comportamenti corretti per evitare che la donna contragga il virus, esponendo di conseguenza il bambino al rischio di trasmissione verticale.
La gestione della gravidanza di una donna sieropositiva deve avvenire sempre sotto il controllo di un Centro clinico di Malattie Infettive. Questo perché la gravidanza richiede un contributo trasversale di diverse figure mediche con lo scopo di tutelare la madre e impedire che l’infezione venga trasmessa al feto. Di per sé la terapia antiretrovirale delle donne in gravidanza positive all’HIV “è la stessa che non in gravidanza”. Questo perché esistono farmaci antiretrovirali che le donne possono assumere tranquillamente durante la gravidanza senza temere alcun tipo di conseguenza per il proprio bambino.
Una corretta gestione della gravidanza riduce il rischio di trasmissione al di sotto dell’1%, assicurando alle donne di vivere la gravidanza serenamente e senza alcun tipo di condizionamento o particolare limitazione.
Come abbiamo già anticipato metà dei casi di trasmissione dell’HIV avviene durante il parto. Questo è quindi il momento più delicato dell’intera gravidanza, in quanto è maggiore il rischio per il bambino. A fare la differenza se poter svolgere un parto spontaneo o dover programmare un cesareo è l’aver seguito la terapia antiretrovirale nel corso della gravidanza. Le donne che l’hanno seguita, infatti, avranno tendenzialmente una carica virale bassa tale da consentire il parto vaginale, avendo cura di evitare, come ribadito dalle Linee Guida Italiane del Ministero della Salute “manovre invasive di monitoraggio fetale (posizionamento di elettrodo sulla testa fetale)”.
Discorso leggermente diverso per quel che riguarda l’allattamento, dove nel corso degli ultimi venti anni molte cose sono cambiate. Da una parte, infatti, c’è la convinzione tradizionale per cui l’allattamento al seno va assolutamente evitato in quanto il latte materno può contenere il virus e diventare veicolo di trasmissione dell’infezione; dall’altra c’è quanto proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nelle linee guida del 2010 e nelle linee guida del 2016. Nel 2010, infatti, le raccomandazioni dell’OSM insieme all’UNICEF indicavano che, in caso di trattamento antiretrovirale e allattamento esclusivo per sei mesi, il rischio di trasmissione è quasi nullo. L’importante è che il bambino si alimenti solamente con il latte e non assuma nient’altro, nemmeno l’acqua. Nel 2016 l’OMS ha esteso queste linee guida portando a due anni la durata dell’allattamento esclusivo.
La questione può essere riassunta mettendo sui piatti della bilancia i benefici (enormi) dell’allattamento al seno e i rischi (quasi nulli) della trasmissione dell’HIV. È da leggere in questa prospettiva il cambio di direzione dell’OMS verso il quale si sono orientati anche numerosi altri organi internazionali che, laddove le donne lo desiderano e in caso di terapia ininterrotta nel corso della gravidanza e anche durante l’allattamento, l’allattamento al seno deve essere incoraggiato e favorito.
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