Durante la gravidanza la salute della donna è monitorata costantemente, per verificare che tutto proceda per il meglio. Ecco perché la futura mamma si sottopone a una serie di esami di routine, che analizzano, trimestre per trimestre, il suo stato di salute e quello del nascituro.

Tra gli esami che vengono prescritti in gravidanza ce ne sono alcuni specifici per escludere la presenza di infezioni, che potrebbero provocare disturbi anche di grave entità e, nei casi peggiori, compromettere la gravidanza stessa. Altri esami, invece, vengono prescritti solo nel caso in cui ci si trovi in presenza di sintomi di cui va identificata la causa.

Uno degli esami che viene eseguito durante la gravidanza se la donna presenta particolari sintomi a carico dell’apparato gastrointestinale, come diarrea, crampi addominali e nausea, è l’esame batteriologico delle feci, o coprocoltura, che serve soprattutto per rilevare eventuali infezioni a carico dell’intestino.

Viene inoltre prescritto di routine all’inizio del nono mese di gravidanza per ricercare un batterio specifico, la salmonella. Vediamo in cosa consiste l’esame e quali sono i risultati.

Coprocoltura: cos’è?

Tecnicamente la coprocoltura è l’esame di laboratorio che serve per individuare nelle feci la presenza di batteri e microbi particolari, che sono responsabili di infezioni (definiti “patogeni”).

Nelle feci umane sono presenti naturalmente molti batteri: per la maggior parte si tratta di microrganismi “buoni”, segno del corretto funzionamento della flora intestinale. Altri invece sono “cattivi” e indicano la presenza di patologie o infezioni. I principali sono:

  • Salmonella;
  • Campylobacter;
  • Shigella;
  • Escherichia coli.

La coprocoltura viene quindi prescritta se il medico sospetta che determinati sintomi riportati dalla paziente possano indicare la presenza di un’infezione intestinale, soprattutto salmonellosi (l’infezione data dalla salmonella), abbastanza comune.

Cos’è la salmonella e quali sono i rischi in gravidanza

La salmonella è una delle infezioni alimentari più diffuse: si può contrarre da alimenti, acqua, alcuni animali o da una persona infetta. Come spiega l’Istituto superiore di Sanità

I sintomi della malattia possono comparire tra le 6 e le 72 ore dall’ingestione di alimenti contaminati (ma più comunemente si manifestano dopo 12-36 ore) e si protraggono per 4-7 giorni. Nella maggior parte dei casi la malattia ha un decorso benigno e non richiede l’ospedalizzazione, ma talvolta l’infezione può aggravarsi al punto tale da rendere necessario il ricovero. Le salmonellosi nell’uomo possono anche causare lo stato di portatore asintomatico.

Se contratta in gravidanza, come riporta il Ministero della Salute, la salmonellosi, può avere esiti diversi, ma raramente di grave entità:

Nelle donne in gravidanza l’infezione può determinare esiti avversi di entità variabile in relazione al sierotipo infettante, al numero di microorganismi ingeriti, ed ai fattori di resistenza della paziente (per esempio i livelli di acidità gastrica, l’immunocompetenza). Il consiglio, anche in gravidanza, è di non contrastare la diarrea, in quanto naturale meccanismo di difesa per espellere i germi. È sufficiente ricorrere a terapia di supporto, basata sulla somministrazione di soluzioni orali reidratanti, come compenso ai liquidi e sali persi con vomito e diarrea, fermenti lattici e probiotici. L’ospedalizzazione e l’uso di antibiotici sono necessari sono nei casi più severi.

Gli alimenti considerati a rischio, spiega ancora il Ministero della Salute, sono:

  • uova crude (o poco cotte) e derivati a base di uova (responsabili di circa 50% di tutte le infezioni da salmonella);
  • latte crudo e suoi derivati;
  • carne e derivati crudi e poco cotti;
  • salse e condimenti per insalate;
  • preparati per dolci, creme e gelati;
  • frutta e verdure contaminate durante il taglio.

Per prevenire il contagio si consiglia, durante la gravidanza, di evitare il consumo di uova crude, di latte non pastorizzato e di carne cruda o poco cotta (che può trasmettere anche la toxoplasmosi) e di lavare con cura frutta e verdura.

Coprocoltura, come si svolge l’esame

L’esame si svolge, come detto, su campione di feci. Basta raccoglierne una piccola quantità in un contenitore sterile, facendo attenzione a non contaminarlo con urina, acqua o altro.

Una volta arrivato in laboratorio il campione viene sottoposto a coltura, un procedimento che consente di far proliferare (e quindi individuare) eventuali agenti patogeni.

Se l’esame dà esito positivo per uno specifico agente si può prescrivere la terapia di riferimento più adeguata. In alcuni casi non viene invece prescritta alcuna terapia, perché l’infezione si risolve da sola.

Se l’esame è negativo significa che non sono stati rilevati agenti patogeni, e gli eventuali sintomi sono dovuti ad altra causa da individuare.

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