Quando si parla di genitorialità, c’è una costante che ritorna: in Italia si fanno figli sempre più tardi. La media oggi è di 31,4 anni, nel 2013 era di 28,8. La fertilità, però, declina progressivamente con l’età, soprattutto dopo i 35 anni.

Per non pregiudicare la possibilità di diventare madri in attesa del momento o del partner giusto, soprattutto dopo la pandemia di Covid, sempre più donne ricorrono quindi al social freezing, una tecnica di fecondazione assistita che promette di “congelare” il tempo. In che modo?

Social freezing: cosa significa?

Con il termine inglese social freezing si intende una metodica di conservazione della fertilità femminile che prevede un ciclo di stimolazione ormonale al fine di prelevare e successivamente congelare (“vetrificare” o “crio-conservare”) in azoto liquido a -196°C ovuli maturi, che potranno poi essere utilizzati all’interno di un eventuale futuro percorso di fecondazione assistita.

Dati e statistiche

L’età è uno dei fattori che più influenzano il buon esito della crioconservazione degli ovuli: secondo uno studio del New York University Langone Fertility Center, e pubblicato sulla rivista Fertility and Sterility, a fare la differenza è quanti anni ha una donna al momento della crioconservazione e il numero di ovuli congelati. La possibilità complessiva in termini di bimbo in braccio post procreazione assistita da ovuli congelati, infatti, era del 39%, con un’età media di 38,3 anni. Ma tra le donne che avevano meno di 38 anni quando hanno congelato gli ovociti, il tasso di natalità era del 51% e saliva al 70% se nel caso di scongelamento di almeno 20 ovuli.

Secondo i dati, però, in molti casi le donne ricorrono al social freezing troppo tardi e congelano un numero di ovuli troppo limitato: un’indagine condotta dal Centro di Bruxelles per la medicina della riproduzione, l’età media di coloro che congelavano le uova era di 36,5 anni e in media veniva congelato un numero medio di 8,5 ovuli a paziente ad ogni ciclo di trattamento.

Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Fertility and Sterility, dal 2019 al 2021 negli Stati Uniti è stato registrato un aumento del 39% dei casi di congelamento elettivo degli ovociti, anche grazie all’influenza della pandemia, durante la quale sempre più donne tra i 21 e i 45 anni si sono aperte alla possibilità di conservare i propri ovociti. In Italia non c’è un monitoraggio preciso del numero di donne che si sottopongono al social freezing, ma ciò che si evidenzia è però che i dati sono in costante aumento.

Rimane però alto quello che gli esperti chiamano “tasso di non utilizzo“: solo il 12,8% è rientrato in clinica per effettuare un trattamento di riproduzione e solo il 6,7% ha effettivamente scongelato i propri ovuli.

Le cause della diffusione del social freezing

Uno dei motivi per cui i numero del social freezing continuano crescere è che, come abbiamo visto, si tende a fare figli sempre più tardi. Le cause possono essere diverse: mancanza di un partner stabile, impossibilità di accedere alle procedure di PMA (attualmente riservate solo a coppie eterosessuali conviventi da almeno due anni), mancanza di stabilità economica o, al contrario, desiderio di concentrarsi sulla carriera (non a caso alcune grandi aziende offrono il social freezing come benefit alle proprie dipendenti).

Secondo uno studio dell’Università Milano-Bicocca e dell’Università degli studi di Padova che indagato la conoscenza delle procedure di PMA delle donne italiane,

tra le donne intervistate che non hanno figli, il 76% ha un forte desiderio di maternità, mentre l’8,4% ha un desiderio di avere un figlio ma non particolarmente forte. Se si prendono in considerazione solo quelle donne che non hanno figli e ne vorrebbero uno ma al momento non lo hanno ancora avuto, per il 28,1% è perché “ci stanno provando ma non riescono”, per il 26% ”perché non hanno risorse economiche a sufficienza” e per il 24,9% “per l’incertezza della carriera lavorativa attuale” (oltre a un 32,3% che indica “perchè non mi sento pronta in questo momento per la maternità”, più diffuso tra le giovani).

Alla base del desiderio di conservare la propria fertilità possono esserci anche ragioni mediche: le donne che devono sottoporsi a trattamenti chemioterapici, ad esempio, che possono pregiudicare la possibilità di avere figli, hanno la possibilità di ricorrere alla crioconservazione degli ovuli per proteggerli dagli effetti dei farmaci e poterli utilizzare una volta terminato il trattamento.

Ma anche le donne più giovani che hanno bassi livelli di ormone antimulleriano (AMH), un indicatore della stima della riserva ovarica, potrebbero decidere di ricorrere al social freezing.

Social freezing in Italia: modalità e costi

Il social freezing è ancora una procedura costosa, con cifre che vanno da 7.000 a 8.000 sterline nel Regno Unito e da 10.000 a 20.000$ negli Stati Uniti. In Italia, il prezzo della procedura si attesta attorno ai 3-4000€, senza contare il costo del mantenimento annuale, che varia a seconda del centro a cui ci si rivolge.

Per poter crioconservare gli ovuli è necessario sottoporsi a una serie di esami diagnostici, tra cui la valutazione della riserva ovarica e l’ecografia transvaginale in fase mestruale per la misurazione della volumetria ovarica e la conta dei follicoli antrali.

In seguito, la paziente si sottopone a un ciclo di stimolazione ovarica, ovvero a una terapia farmacologica a base di ormoni che serve a indurre l’ovulazione e, in particolare, a ottenere la maturazione contemporanea di più follicoli, così da avere a disposizione più ovociti utili ad essere fecondati.

Quando i follicoli sono maturi – ovvero con un diametro compreso tra i 17 ed i 20 mm – viene effettuato il prelievo ovocitario, detto anche “pick up”, un intervento non invasivo che dura circa 15-30 minuti e viene effettuato sotto sedazione. Gli ovuli vengono quindi congelati in azoto a -196°.

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