L’Italia garantisce il diritto di abortire entro i termini previsti dalla legge. Nonostante questo, però, riuscire ad accedere all’interruzione volontaria di gravidanza (nota anche come “Ivg”) è spesso una corsa a ostacoli.

Cosa dice la legge? Entro quanto e come si può abortire? Qual è la procedura da seguire? Chi può opporsi?

Abbiamo raccolto tutte le risposte ai dubbi più frequenti su come abortire in Italia in questa guida. Perché il primo passo per ottenere il rispetto dei propri diritti riproduttivi è conoscerli.

Come abortire in Italia: cosa dice la legge

Il diritto delle donne di ottenere una interruzione volontaria di gravidanza una struttura pubblica o convenzionata in Italia è sancito dalla Legge 194/78

L’aborto può essere effettuato entro la 9 settimana di gravidanza in maniera farmacologica o entro i 90 giorni (12 settimane + 6 giorni) dal concepimento con un intervento chirurgico. Oltre questo termine – ed entro i 5 mesi di gestazione – si può ricorrere all’aborto terapeutico, che è limitato a casi particolari in cui ci sia pericolo per la salute della mamma e del feto se si continua la gravidanza.

Le tipologie di interruzione volontaria di gravidanza

L’aborto farmacologico

Se non sono trascorsi più di 63 giorni dal concepimento l’aborto avviene mediante la pillola RU486, o “pillola abortiva”, che si prende direttamente in ospedale dopo essersi sottoposte ad accertamenti in regime di day hospital. Alcune ore dopo l’assunzione della pillola RU486 alla donna vengono somministrate delle sostanze chiamate prostaglandine, che favoriscono la contrazione uterina e quindi lo svuotamento autonomo del materiale abortivo.

Le possibili controindicazioni dell’aborto farmacologico consistono in reazioni allergiche, emorragie uterine e mancata espulsione dell’embrione, per cui è previsto che la paziente resti sotto osservazione in ospedale per qualche ora. In ogni caso si può ricorrere, in alternativa, all’aborto di tipo chirurgico: se la gravidanza non ha superato le 9 settimane, infatti, la scelta spetta sempre alla donna, che potrà decidere liberamente dopo aver ricevuto tutte le informazioni relative alle due procedure.

Va detto anche che non tutti gli ospedali garantiscono la possibilità di accedere all’aborto farmacologico, soprattutto dopo le 7 settimane.

È bene ricordare che quando parliamo di aborto farmacologico non parliamo delle cosiddette “pillola del giorno dopo” o “dei 5 giorni dopo”, che più correttamente dovrebbero essere definite contraccezione d’emergenza. Questi non sono farmaci abortivi, ma vengono assunti nelle 72 ore immediatamente successive a un rapporto sessuale a rischio per prevenire la fecondazione inibendo l’ovulazione: l’effetto non è quello di interrompere una gravidanza in corso, ma di impedire che la gravidanza possa realizzarsi, impedendo la fecondazione e, quindi, il concepimento.

Per questo motivo, come ricorda Federica Di Martino di Ivg Ho Abortito e Sto Benissimo, i farmacisti non possono rifiutarsi di vendere questi medicinali, per cui non è prevista l’obiezione di coscienza.

L’aborto chirurgico: tecniche e procedure

Se la gravidanza ha superato i 63 giorni la scelta dell’aborto chirurgico, o strumentale, diventa invece obbligata. In questo caso, la donna deve sottoporsi a un breve intervento in anestesia locale o generale che permette di rimuovere dall’utero il prodotto del concepimento.

Si utilizzano, a questo scopo, diverse tecniche: sempre più utilizzata è l’isterosuzione, che è consigliabile solo nelle prime 8 settimane e consiste nell’aspirazione del materiale embrionale (e dell’endometrio) attraverso una cannula collegata a una pompa a vuoto e inserita nell’utero. In alternativa si ricorre alla pratica comunemente nota come raschiamento uterino, che di solito avviene in anestesia locale.

L’aborto terapeutico

In determinati casi, la legge 194 permette di abortire anche dopo il novantesimo giorno di gravidanza. Si parla, in questa situazione, di aborto terapeutico (o interruzione terapeutica della gravidanza), una procedura che secondo la legge può essere praticata solo:

  1. quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna;
  2. quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Per accedere questa procedura, oltre alla richiesta della paziente, occorre che uno specialista attesti che effettivamente il prosieguo della gravidanza rappresenterebbe un rischio per la salute – psicologica o fisica – della donna.

L’aborto terapeutico in Italia è di norma ammesso non oltre la 22^ settimana di gestazione, e avviene mediante la somministrazione di farmaci che causano la dilatazione della cervice uterina e l’avvio delle contrazioni, innescando di fatto un vero e proprio travaglio. Se il feto dovesse sopravvivere al parto indotto, il personale medico ha l’obbligo di rianimarlo e fare tutto il possibile per tenerlo in vita.

Come procedere per interrompere la gravidanza

Per potere accedere all’Ivg, la donna può recarsi in un consultorio o in un ospedale, o prendere appuntamento con il proprio ginecologo di riferimento, per un primo colloquio in cui oltre a certificare l’effettiva presenza della gravidanza viene espressa la volontà di interromperla. Prima di recarsi all’appuntamento, è bene effettuare delle analisi del sangue per rilevino la concentrazione delle Beta-hCG, gli ormoni della gravidanza, per avere indicazioni anche sulle settimane di gestazione.

Le ragazze minorenni devono essere accompagnate da un genitore oppure dal proprio tutore, ma possono rivolgersi anche ai Servizi sociali del loro comune di residenza qualora non vogliano informare i genitori.

Una volta concluso il colloquio con il medico la donna riceve un certificato per poter passare alla fase successiva, cioè l’interruzione di gravidanza vera e propria. La legge prevede che tra il colloquio e l’ivg debbano passare 7 giorni, per eventuali ripensamenti, ma in casi di particolare urgenza – in prossimità della scadenza delle settimane o di condizioni psico-fisiche particolari – il medico può autorizzare l’interruzione senza dover attendere.

Dopo una settimana, la donna può rivolgersi a una struttura pubblica o convenzionata per effettuare l’aborto, che sarà eseguito con diverse modalità – farmacologica o chirurgica – a seconda dell’epoca gestazionale.

Problemi e ostacoli: l’obiezione

Anche se la legge garantisce alle donne il diritto di abortire, ottenere l’interruzione di gravidanza può essere molto complesso. Non solo per le possibili pressioni psicologiche sulla paziente che sceglie di abortire, che in alcuni casi sono anche istituzionalizzate, come nel caso della proposta di legge firmata dal sindaco di Grosseto Antonfrancesco Vivarelli Colonna che voleva obbligare le donne ad ascoltare il battito cardiaco del feto prima di sottoporsi all’Ivg.

Molte donne, infatti, si trovano di fronte alla impossibilità materiale di prenotare in tempo utile una interruzione volontaria di gravidanza per le lunghe liste d’attesa causate dall’alto numero di ginecologi obiettori. L’articolo 9 della legge 194, infatti, stabilisce che

Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli articoli 5 e 7 ed agli interventi per l’interruzione della gravidanza quando sollevi obiezione di coscienza, con preventiva dichiarazione.

Secondo i dati del Ministero della Salute sull’attuazione della legge 194/78, la percentuale di personale obiettore si è superiore al 69%, con grosse variazioni regionali: in Abruzzo c’è una sola ginecologa non obiettrice, mentre il numero di obiettori tocca punte dell’83% in regioni come la Campania.

Non dimentichiamo che l’obiezione è prevista solo per ginecologi, anestesisti ed ostetrici, nonostante nel nostro Paese altre figure sanitarie – dagli infermieri ai farmacisti – vi si nascondano dietro.

Cosa succede dopo l’aborto?

L’esperienza di ogni donna è diversa dopo l’aborto, sia a livello psicologico che fisico. Nel caso di aborto farmacologico, è possibile sperimentare crampi addominali, sanguinamento vaginale, nausea e vomito, diarrea e mal di testa.

Crampi addominali, sanguinamento vaginale, nausea e vomito possono essere presenti anche dopo l’intervento chirurgico, così come affaticamento. In genere, i sintomi scompaiono entro pochi giorni ed è importante seguire le istruzioni del medico e segnalare qualsiasi anomalia.

A seconda del caso specifico, il medico darà anche indicazioni sulla ripresa delle attività sportive, dei rapporti sessuali e sull’assunzione di contraccettivi.

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